Le emozioni sociali

Psicologia – Sono le emozioni che ci permettono di sentirci parte di una comunità e condividere valori morali
/ 19.10.2020
di Stefania Prandi

Le emozioni permettono di sentirci parte di una comunità, avere valori morali condivisi, provare empatia e immedesimarci negli altri. Non appartengono soltanto alla dimensione privata della vita, ma anche a quella collettiva. La filosofia ha indagato le emozioni – chiamate sentimenti, affetti o passioni – dalla Grecia antica, con Platone e Aristotele. Nei secoli successivi se ne sono occupati René Descartes, Baruch Spinoza, David Hume, solo per fare qualche nome, fino ad arrivare alla contemporanea Martha Nussbaum. 

In anni più recenti questi «stati psichici» sono stati studiati anche dalle neuroscienze, utilizzando (grazie all’evoluzione tecnologica), fuori dai laboratori, strumenti come la risonanza magnetica funzionale e l’elettroencefalografia che hanno fornito informazioni rilevanti sui meccanismi neurali coinvolti nei processi di interazione sociale. Metodi e scoperte più recenti sono raccontate in Neuroscienze delle emozioni (Franco Angeli) da Michela Balconi, docente di Psicofisiologia e neuroscienze cognitive e direttrice dell’International research center for cognitive applied neuroscience (Irccan) all’Università Cattolica di Milano e Brescia. La professoressa e ricercatrice spiega ad «Azione»: «Le emozioni sono un caleidoscopio di componenti perché sono fatte di molte parti e si studiano da prospettive diverse. C’è chi si occupa dell’esperienza personale, chi del fattore di tipo relazionale, chiamando in causa le situazioni e i rapporti con le persone. Io mi occupo di rilevare l’aspetto fisiologico, cioè le risposte del corpo e del cervello». 

Le emozioni non sono innate e uguali per tutti. Al contrario, vengono condizionate dalla predisposizione e dall’ambiente di appartenenza. «Sappiamo con certezza che non tutti i popoli hanno gli stessi correlati emotivi. Ad esempio, chi vive nel continente asiatico esprime emozioni diverse, in maniere differenti, dagli europei. Una situazione dovuta al modo in cui le emozioni vengono regolate dalla cultura di riferimento, capace di renderne alcune preminenti rispetto ad altre. In occidente prevalgono le emozioni individuali, mentre in oriente il soggetto non è prioritario, è il bene della società che conta anche a scapito dell’auto sacrificio dei singoli» dice Balconi. 

Ci sono emozioni sociali comuni a certe aree del mondo, come ad esempio la schadenfreude, la gioia per le disgrazie degli altri, che nasce dall’invidia, dal senso di impotenza e frustrazione, dal desiderare qualcosa che non si ha. La schadenfreude deriva dalla consapevolezza di non potere raggiungere lo stato di felicità di qualcuno che conosciamo, anche indirettamente, e ci fa godere della sua malasorte. «Possiamo considerarla un’emozione che esiste da sempre. Sicuramente trova terreno fertile quando le persone vivono in società dove devono dimostrare in continuazione di non essere da meno degli altri. I mass media e i social network sono un potente diffusore di schadenfreude perché spingono a fare paragoni rispetto alle proprie capacità e performance». A questo proposito, è utile puntualizzare che le emozioni che si diffondono in rete non sono meno reali di quelle che scaturiscono dall’interazione dei corpi. Le esperienze online, secondo Balconi, sono «emotive» a tutti gli effetti, anche se si rivelano meno stabili nel breve tempo, «più volubili, quasi volatili». Si spalmano su gruppi di individui, a piccoli pezzi, nelle community dove c’è una figura oppure un tema che fa da leader e dà la connotazione emotiva, il «mood». Col passare del tempo, sostengono gli esperti, le emozioni virtuali porteranno a un profondo cambiamento sociale, nella percezione e nell’espressione di ciò che proviamo, sia nelle macro sia nelle micro-culture.  

Emozioni e moralità sono strettamente imparentate. Sono la colpa e la vergogna per qualcosa che commettiamo a farci capire di non essere in linea con la nostra cultura di appartenenza. E la paura di essere puniti materialmente è un deterrente che ci scoraggia dal compiere certe azioni nocive per gli altri. Però non tutte le persone provano le stesse emozioni sociali. Esiste, infatti, una componente fisiologica, una maggiore sensibilità di alcuni individui a usare i meccanismi di «mirroring» e «mentalizzazione». Con il termine «mirroring» ci si riferisce «a una mappatura spontanea prodotta in risposta agli stati emotivi degli altri, che possono essere espressi attraverso le espressioni facciali, i gesti, i suoni e le posture del corpo, consentendo la formulazione di una rappresentazione condivisa delle emozioni tra l’osservato e l’osservatore». La «mentalizzazione» permette, «attraverso una proiezione mentale di se stessi sugli altri e il rispecchiamento delle rappresentazioni interne sulle azioni altrui», la riproduzione delle emozioni come se fossero le proprie. Al di là della predisposizione caratteriale, la componente culturale gioca un ruolo basilare nella relazione tra emozioni e moralità: l’educazione che si riceve in famiglia e a scuola dà il senso di «agency», cioè il sapere che si è responsabili di ciò che si fa, che le proprie azioni hanno delle conseguenze. 

Fondamentale in questo senso è l’empatia. Non è un’emozione «buonista», per usare un termine entrato in voga da qualche tempo, perché non poggia soltanto su un senso di altruismo. Ha in realtà solide basi opportunistiche perché come esseri umani abbiamo imparato dalla storia che non possiamo sopravvivere da soli. «L’empatia va ben oltre la semplice reattività affettiva, in quanto è in grado di influenzare la nostra capacità di interpretare gli altri, così come le strutture cognitive responsabili sia della comprensione sia del comportamento altrui». È un’emozione autoconsapevole: razionalmente riconosciamo quello che provano gli altri pur non provandolo e riusciamo a fare parte di una società, mettendo in atto strategie collaborative che speriamo possano esserci utili, nel momento del bisogno.