Qualche settimana fa tre ventenni sono stati assolti in Appello dall’accusa di stupro di gruppo (perpetrato nel Sottoceneri). Si tratta di due fratelli che erano stati condannati in primo grado nel 2022 per atti sessuali con una ragazza incapace di discernimento o inetta a resistere – incontrata dopo una serata in discoteca – e il loro amico, ritenuto reo di violenza carnale ripetuta. Altri tre giovani del Luganese sono comparsi alla sbarra settimana scorsa: avrebbero abusato di una coetanea nel 2019, durante una festa campestre. Questi sono solo gli ultimi – i più eclatanti raccontati dai media – di una lunga serie di reati a sfondo sessuale che si consumano anche alle nostre latitudini. Dati della polizia alla mano, in Svizzera nel 2021 si sono registrati 757 casi di violenza carnale e 720 di coazione sessuale: la punta dell’iceberg di un fenomeno in realtà molto più diffuso (le cifre del 2022 saranno rese note a fine mese). Mentre continua il dibattito sulla revisione del diritto penale in materia (leggi box), ne parliamo con una psicologa e psicoterapeuta.
«Quando si parla di violenza carnale e abusi sessuali – dice Angela Andolfo Filippini che collabora con il Servizio di aiuto alle vittime di reati ticinese – si pensa di solito a una donna che cammina di notte da sola e in un angolo buio viene aggredita da uno sconosciuto che la stupra mentre lei urla disperata. Ma è una rappresentazione riduttiva del fenomeno; la maggior parte delle situazioni sono di tutt’altra natura». L’atto sessuale imposto non è sempre legato ad un autore violento, spiega l’intervistata. In molti casi si tratta di un «avvicinamento subdolo, manipolatorio o ingannevole» che spesso ha a che fare con momenti di vulnerabilità della persona che subisce violenza: ad esempio una donna non si sente bene o ha bevuto alcolici e l’amico o l’ex si offre di accompagnarla a casa e, invece di aiutarla, approfitta del momento… «Violenze sessuali di forme e grado diversi avvengono spesso anche all’interno di relazioni strutturate», sottolinea la psicologa. Relazioni che nulla hanno a che vedere con l’amore e il rispetto: si basano su un’idea distorta dei rapporti tra i generi e della donna, che diventa un oggetto in balia delle necessità altrui. Devastanti gli effetti sul corpo e la psiche della vittima che perde fiducia in sé stessa, negli altri e cade in uno stato di profonda sofferenza.
Le violenze sessuali sono traumi destabilizzanti e destrutturanti che rappresentano «un rischio vitale» per chi le subisce, afferma Muriel Salmona, psichiatra e presidente dell’associazione attiva in Francia Mémoire Traumatique et Victimologie (leggi Soigner les victimes de violences sexuelles sul sito www.memoiretraumatique.org). «Per sfuggire a questo rischio vitale il cervello mette in atto meccanismi di salvaguardia neuro-biologica che interrompono i circuiti emotivi e della memoria», i quali sono all’origine dei principali sintomi del disturbo post-traumatico da stress: ricordi intrusivi o memoria traumatica (flash back, incubi), ipervigilanza (stato di tensione e stress cronico), sensazione di pericolo permanente, comportamenti dissociativi e di evitamento del trauma, ansia generalizzata fino ad arrivare allo sviluppo di «disturbi fobici e ossessivi, depressione e tentativi di suicidio, disturbi cognitivi, disturbi dello sviluppo e del comportamento, dipendenze, disturbi alimentari, del sonno o sessuali, malattie legate allo stress (…)». «A volte le vittime – che sono in maggioranza donne – si chiudono in uno stato di isolamento», aggiunge Andolfo Filippini. «Evitano di frequentare certi luoghi per paura di incontrare l’aggressore, di essere nuovamente esposte al pericolo, evitano di rimanere sole con uomini o situazioni che ricordino il trauma vissuto».
È possibile «guarire» da un’esperienza di questo tipo? «Le ferite variano da donna a donna; le possibilità di recupero dipendono anche da qual è il terreno emotivo su cui si innesta il trauma (a volte va ad aggiungersi ad altri traumi). Non si tratta comunque mai di “tornare come prima” ma di capire come andare avanti dopo». Il primo passo – afferma l’esperta – è legittimare la propria sofferenza, riconoscerla come derivante dalla violenza subita e non come qualcosa di cui si è responsabili (ad esempio per un comportamento o un abbigliamento «sbagliato»). La violenza non è mai una reazione ma un’azione deleteria di cui la vittima non ha colpa. «In secondo luogo è necessario parlarne con persone di fiducia ed enti di aiuto che possono sostenere durante l’iter di denuncia. Sono passaggi cruciali dal punto di vista del recupero della propria autonomia e delle proprie risorse. Ma molte vittime faticano a denunciare». Perché non sono cose facili da dire: bisogna raccontare un fatto intimo e terribile a degli sconosciuti, agenti, procuratori ecc. C’è il forte senso di vergogna, il sentirsi colpevoli, che aumentano se la vittima ha bevuto, è uscita sola ecc. C’è poi chi non parla perché vuole dimenticare. Anche l’idea che l’autore rischi poco non aiuta. Per uno stupro da uno a 10 anni di carcere; nel caso di coazione sessuale è prevista una pena detentiva sino a 10 anni o una pena pecuniaria. «Ma di rado il giudice infligge i massimi previsti dalla legge e purtroppo si assiste spesso al non luogo a procedere…». In ogni caso – sottolinea Andolfo Filippini – intervenire subito dopo l’aggressione (chiedendo assistenza medica, psicologica e legale) fa la differenza e aumenta le possibilità di recupero.
Le norme in materia di crimini sessuali stanno per cambiare. La direzione intrapresa è incoraggiante. «Purtroppo però non è passato il principio della necessità del consenso esplicito di tutte le persone coinvolte nell’atto sessuale (“solo sì vuol dire sì”)». Una soluzione adottata da una quindicina di Paesi europei e prevista dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Per Andolfo Filippini solo il consenso esplicito toglie qualsiasi dubbio e rappresenta un cambiamento di prospettiva, la volontà di scardinare certe rappresentazioni terribili ancora molto diffuse: «Si scherza ancor oggi sul fatto che, quando una donna dice no, in realtà intende dire sì. Lo fa solo per flirtare, giocare, tenere l’altro sulle spine e aumentare il desiderio. Niente di tutto questo. Ribadiamolo: il no significa no e basta ma a volte viene mal interpretato o bypassato dall’altro. In questo si manifesta una pulsionalità maschile problematica che andrebbe educata, regolata, contenuta, incanalata se possibile all’interno di una relazione che può essere solo consensuale. Il corpo dell’altra non è un ricettacolo ad uso e consumo del maschio».
E qui si apre una vasta discussione su una questione culturale profonda, ancorata in una narrativa ancestrale che influenza sia uomini che donne. Per lungo tempo queste ultime sono state considerate «costole d’Adamo». Non avevano legittimità in quanto persone a sé stanti – spiega Andolfo Filippini – ma esistevano in un certo senso in funzione del marito, dei figli, della famiglia. Dipendevano dall’uomo a livello economico, legale, su tutti i fronti. Gli dovevano fedeltà, devozione e tante altre cose, favori sessuali compresi. Malgrado sia in atto un processo di emancipazione irreversibile e benefico, questa rappresentazione è ancora viva nell’inconscio. Genera sofferenza e fa danni enormi.
Abbiamo raccolto non poche testimonianze di donne che non sono state violentate nel senso stretto del termine. Ma hanno accettato atti sessuali non desiderati come male minore. I casi si possono classificare in due: escono con un uomo che si aspetta «la conclusione», a metà strada si accorgono di non desiderare lo stesso ma ormai è fatta (per paura di una violenza, perché «in fondo l’ho istigato ed è giusto così»); hanno una relazione e si «concedono» contro voglia al partner perché si sentono in un qualche modo «una sua proprietà», perché hanno il timore di essere lasciate, tradite ecc. In questi casi si può parlare di vittime? Non userei questo termine perché le situazioni non hanno valenza penale», afferma Andolfo Filippini. «Si tratta piuttosto di casi in cui la donna aderisce alle aspettative dell’altro piuttosto che alla propria volontà, ai propri desideri. Rinuncia alla sua autonomia emotiva e sessuale. Sono situazioni che – come nei casi di violenza classica – possono creare grande sofferenza. Malgrado viviamo nel 2023 e molti passi avanti sono stati fatti, questa visione del mondo rimane radicata nella psiche individuale e collettiva. E l’autonomia della donna è sempre messa in discussione. Questo limite tra sé e l’altro riguarda anche gli uomini, che talvolta percepiscono le donne come qualcosa su cui hanno dei diritti, perché in fondo “è cosa mia”, non accettandone l’indipendenza…». Tanto si può dunque fare, con la messa in discussione di modelli superati e l’educazione delle nuove generazioni a rapporti davvero paritari.