Le donne nella rete delle minacce

Web – Per invertire il fenomeno delle molestie e della violenza online, serve educare le nuove generazioni e occorre denunciare i molestatori
/ 13.02.2017
di Stefania Prandi

Sono sempre più le donne molestate e minacciate su internet. In rete si scatena una violenza difficile da immaginare, come dimostra la denuncia di Arianna Drago, giovane informatica italiana. Pochi giorni fa ha segnalato che su Facebook esistono gruppi che pubblicano foto rubate a ragazze, commentandole senza riguardo e persino inneggiando allo stupro. Il fenomeno è globale: nei mesi scorsi la rivista americana «Time» ha dedicato la copertina alla «cultura dell’odio online» e il marchio di sicurezza digitale Norton ha intervistato un migliaio di donne, metà delle quali ha dichiarato di avere subito trolling, molestie, intimidazioni. Tra le ragazze con meno di 30 anni la percentuale sale al 76 per cento e almeno una su dieci ha avuto esperienza di revenge porn, termine con cui si intende la pubblicazione online di foto o video che riprendono rapporti intimi con l’ex partner. Anche in Svizzera si è discusso della questione del revenge porn quando, lo scorso maggio, è stata bocciata la proposta di legge in merito, dopo che il Consiglio federale ha stabilito che l’apparato giuridico attuale è sufficiente per tutelare le vittime. 

Secondo il «Guardian», le donne ricevono il doppio delle minacce di morte e di violenza sessuale degli uomini e in un caso su cinque vengono attaccate per il proprio aspetto. Il quotidiano inglese ha realizzato una lunga inchiesta, analizzando 70 milioni di commenti agli articoli pubblicati dal 2006; dei 10 giornalisti più insultati, 8 sono donne e 2 uomini di colore. Le reporter Jessica Valenti e Nesrine Malik, prese di mira dalla furia dei lettori, hanno raccontato l’impatto negativo dei messaggi di discredito sulla loro vita personale e sui familiari. Bisogna ricordare che anche gli uomini non sono immuni dalla violenza online, che li colpisce però in maniera diversa: vengono insultati, presi a male parole, messi in imbarazzo, ma non minacciati di stupro né molestati sessualmente. Secondo la ricerca di Norton il problema non accenna a diminuire, anzi per il 60% delle donne è in aumento. Manca ancora la consapevolezza adeguata per affrontarlo: viene ignorato nel 40% dei casi e denunciato alle forze dell’ordine soltanto nel 10%. Come spiega Danielle Keats Citron, docente di Legge all’università del Maryland, nel libro intitolato Hate Crimes in Cyberspace, i comportamenti virtuali violenti non sono né normali né inevitabili: «se esistono è perché c’è un problema culturale che dobbiamo cercare di risolvere collettivamente usando tutti gli strumenti tecnologici e sociali a disposizione». 

I modi per difendersi ci sono, spiega Ornella, attivista di Hollaback, movimento internazionale nato nel 2005 a New York per porre fine alla molestie in strada, che ha lanciato HeartMob, un sito per aiutare a reprimere la violenza di genere online. Come le altre partecipanti del gruppo, Ornella sui media non appare con il proprio cognome, proprio per evitare ripercussioni. Ad «Azione» spiega che, se si viene prese di mira, «è importante rendersi conto che non bisogna sentirsi in colpa perché è il molestatore ad essere in errore. Se ci si trova in difficoltà, si deve chiedere aiuto agli amici, alla famiglia, ai siti specializzati. Anche se si ha voglia di cancellare subito i messaggi offensivi o minacciosi, è meglio fare uno sforzo e aspettare, documentando prima tutto, attraverso screenshot (foto della schermata) e copiando i link. Le prove, infatti, sono determinanti in fase di denuncia. Successivamente va chiesto che i contenuti vengano rimossi dalla piattaforma social e dai motori di ricerca». 

Per limitare il fenomeno occorre agire sull’educazione e sulla formazione, spiega Giovanni Ziccardi, professore alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, dove ha fondato e dirige il corso di perfezionamento post-laurea in Computer Forensics e Investigazioni Digitali. «Il punto è fare in modo che i giovani non si abituino a considerare normali le espressioni di odio e di violenza. Siamo in un periodo storico in cui gli smartphone e i tablet vengono regalati ai bambini di otto anni. È necessaria, da parte degli adulti, una maggior attenzione a come i più piccoli affrontano le insidie del mondo digitale, anche attraverso una buona conoscenza degli strumenti informatici. Va ricordato, inoltre, che molto spesso le tecnologie vengono usate per imitazione, osservando i compagni e i genitori». 

Gli abusi accadono soprattutto sui social media, tanto che Twitter ha annunciato di avere rinnovato l’impegno a tracciare chi minaccia, molesta e diffama. Facebook ha sviluppato un nuovo strumento per prevenire il rischio di suicidio. Il rischio di cadere in depressione e avere pensieri autodistruttivi, infatti, riguarda una donna su cinque. Per rendere l’idea di quanto i messaggi «virtuali» possano essere dannosi, negli Stati Uniti è stato girato un video dal titolo #PiùCheMeschino (MoreThanMean). Nella clip, realizzata dalla comunità web Just Not Sports, alcuni uomini leggono le parole che sono state indirizzate alle giornaliste sportive Sarah Spain (di ESPN) e Julie DiCaro (del canale radio di Chicago 670). Si comincia da messaggi più innocui fino ad arrivare a insulti pesanti e auguri di morte violenta. A rendere ancora più toccante il filmato, il fatto che le due reporter siano proprio lì davanti, ad ascoltare. Un esperimento che dimostra quanto l’odio diffuso sul web abbia conseguenze reali. 

Non è un caso che proprio in rete si scatenino certi meccanismi perché, dice Ornella di Hollaback, «nel mondo virtuale è più facile per l’aggressore nascondersi sotto identità fittizie. Inoltre, si riescono a organizzare attacchi collettivi, bullizzando e diffamando in gruppo. Nuove parole stanno entrando nel vocabolario, per nominare queste forme di violenza online. Pensiamo al doxing, una tecnica per tracciare le persone nei loro comportamenti, raccogliendo ogni sorta di informazione privata e rivelando poi in rete dati sensibili come foto (esponendo a casi di pornografia involontaria) o corrispondenza email. Un altro esempio è il grooming, l’adescamento sessuale sotto mentite spoglie». 

Le molestie riguardano anche le donne che giocano ai videogiochi. Uno studio dell’Università dell’Ohio, negli Stati Uniti, ha analizzato i comportamenti di 293 giocatrici, che hanno in media 26 anni. Dall’indagine risulta che oltre a ricevere parolacce e insulti riguardo alle proprie capacità, vengono prese di mira con scherzi su stupro e richieste di favori sessuali. Le giocatrici, da parte loro, per neutralizzare il problema decidono di assumere un’identità maschile. In questo modo, però, diventano invisibili nella comunità dei gamer, con una serie di conseguenze anche sui contenuti di chi progetta i giochi, che continua a considerarli di fruizione prevalentemente maschile.