L’apatia giovanile

Adolescenti – La psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva Carmen De Grazia spiega che cos’è l’apatia dei ragazzi e a cosa prestare attenzione perché non diventi un disagio più serio
/ 03.01.2022
di Alessandra Ostini Sutto

Svogliati, disinteressati, annoiati. Sono tre aggettivi nei quali non pochi genitori potrebbero riconoscere i propri figli adolescenti. L’apatia – intesa come «assenza di passione, sensibilità» – ha infatti un legame con questa fase della vita che trova la sua ragione d’essere a livello di sviluppo cerebrale. L’importante è che questa «indolenza fisiologica» non si trasformi in un disagio più serio. Rischio amplificato da alcuni tratti della nostra società, che non facilita, ad esempio, il processo di autonomia. A volte, neppure i mass-media sono d’aiuto, si pensi a certi modelli veicolati, assolutamente slegati dal concetto di fatica ed impegno. Da ultimo, ma non per importanza, l’uso – spesso l’abuso – degli schermi.

Di questi argomenti abbiamo discusso con Carmen De Grazia, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva. Con la sua conferenza dal titolo Apatia giovanile: cos’è e come combatterla si è concluso il ciclo di incontri gratuiti «Un’ora parliamo di…», organizzati dalla Croce Rossa Svizzera, sezione Ticino, per il 2021. Le conferenze (sostenute dal Dipartimento della Sanità e della Socialità del Cantone Ticino) nascono dall’idea di affrontare temi forti legati alla famiglia in modo puntuale e concreto, nell’arco appunto di un’ora, così da dare la possibilità a più genitori possibili di partecipare (gli appuntamenti previsti per il 2022 si trovano sul sito www.crs-corsiti.ch).

Dottoressa De Grazia, in grandi linee, cosa succede a livello cerebrale durante l’adolescenza?
Nello sviluppo del cervello in questa fase c’è una concentrazione nelle aree legate al funzionamento logico-matematico, sequenziale, della memoria, nelle quali i ragazzi sono quindi concentrati ad acquisire competenze. L’area dedicata all’empatia, alla pianificazione, alla progettualità si sviluppa dopo. Quando parliamo quindi di ragazzi senza prospettive si tratta di una contraddizione in termini. A chi volesse verificare quanto affermato, propongo di dire una cosa ad un ragazzo e ripeterla l’anno dopo; la reazione sarà sicuramente diversa.

Potrebbe definire che cos’è l’apatia giovanile?
Innanzitutto va fatta chiarezza sui termini. Da una parte c’è l’apatia, che rientra nel Manuale diagnostico delle malattie mentali, al pari, per esempio, della depressione o la schizofrenia e ci sono i casi di ritiro sociale, oggi ritenuto la forma di disagio più rappresentativa del periodo adolescenziale. Dall’altra c’è quell’umore un po’ cupo, quelle ricorrenti lune storte negli adolescenti, perlomeno in certi periodi; è di questa seconda connotazione che vogliamo parlare.

Più concretamente, come si manifesta questo atteggiamento apatico nei giovani?
Parlando di apatia giovanile in senso lato ci riferiamo a ragazzi un po’ musoni, che non hanno voglia di fare niente, che bisogna trascinarli per uscire. Atteggiamenti non solo nella norma ma, paradossalmente, riflesso di salute del cervello, in quanto testimoniano che il ragazzo si sta staccando dalla fase precedente, più spumeggiante e spensierata. In questo momento transitorio il giovane si deve poter distinguere e spesso la prima strada che trova è quella del distacco emotivo, visibile pure da un’inespressività facciale.

Prima faceva la distinzione tra l’apatia appena descritta e un malessere più profondo e problematico; qual è il confine?
Direi sia il caso di preoccuparsi se sono trascorsi oltre sei mesi e se il fenomeno è frequente e tocca svariati ambiti della vita. Nelle situazioni non patologiche, infatti, i ragazzi non hanno atteggiamenti apatici in qualsiasi situazione. Possono averli a casa, con gli insegnanti, a ginnastica ma poi li incroci con gli amici e li vedi allegri e brillanti, perché con loro sentono di poter esprimere sé stessi. Per questo motivo dico sempre ai genitori di non punire i figli togliendo le uscite, ma di prendere coscienza che la socializzazione è l’amica numero uno per aiutare i ragazzi che a casa vediamo apatici.

Qual è il suo ruolo in questo tipo di situazioni, come le affronta?
Un primo elemento che mi preme mettere a fuoco è proprio in quali e quanti ambiti il ragazzo è apatico. Altra cosa che mi aiuta è vederlo con i genitori e poi da solo. Nell’approccio individuale in genere è più libero di parlare, di esprimersi e questo, ovviamente, non perché non si tratti di bravi genitori. Sta nel gioco delle parti, nel ruolo che i ragazzi hanno all’interno della famiglia nelle varie fasi della vita. In accordo con il ragazzo, il terapeuta può dire ai genitori di averlo visto che parla, ride, si diverte e questo, spesso, li tranquillizza molto.

Una volta tornati a casa però la situazione resta, ovviamente, immutata. Cosa può fare un genitore?
Ci sono, per esempio, delle tecniche di comunicazione che aiutano a fare domande più fertili. Spesso i genitori si ritrovano con risposte monosillabiche anche perché sono loro ad essere rigidi ed impostati. Essi devono da un lato imparare ad entrare nel mondo dei figli e dall’altro fungere da modello, mostrando come si comunica e facendo vedere anche un altro lato di sé, per esempio attraverso la frequentazione, comune, di persone al di fuori della famiglia. Osservare il genitore più rilassato ed estroverso aiuta infatti a percepirlo come una persona più affine, non unicamente quella che rompe le scatole con commenti del tipo «non hai raccolto questo», «non hai fatto il compito», «hai lasciato in giro quest’altro». Nell’intento di rinforzarne le risorse, spesso finiamo, infatti, per passare il tempo a criticare i ragazzi. L’obiettivo, in questo ambito, dovrebbe essere che ad ogni commento che suona come una critica corrisponda almeno un’interazione verbale in cui si parli, ci si diverta, si faccia o si pianifichi qualcosa insieme.

Restando in tema, c’è una relazione tra l’atteggiamento apatico e il tipo di famiglia in cui si cresce? 
Da quello che ho avuto modo di osservare, i ragazzi di cui stiamo parlando sono accumunati – tra le altre cose – da una certa incapacità di mettere delle parole sulle proprie emozioni e da una demotivazione dovuta alla paura del fallimento. Non si mettono cioè in gioco per evitare di sentire la sensazione, dolorosa ed angosciante, connessa al rischio di fallire; ciò è correlato agli stimoli ricevuti in famiglia.

In che senso?
La famiglia è un po’ come una palestra di vita per i figli, dove si dovrebbe allenare la diversità, in ogni senso, per esempio riferita ad ambienti e persone. Con questo non voglio incolpare i genitori, ma piuttosto renderli attenti sul fatto che non necessariamente sono i ragazzi a dover essere «aggiustati», ma pure noi a doverci mettere in discussione. In quest’ottica l’adolescenza del figlio è un’ottima opportunità.

Prima parlava di tratti che si ritrovano nei ragazzi che mostrano più apatia; ve ne sono altri oltre a quelli già enunciati?
Direi che si tratta di ragazzi molto sensibili, che vengono facilmente sovra-stimolati e si stancano rapidamente. Ragazzi per cui anche normali momenti della vita quotidiana – come prendere un mezzo pubblico, con i suoni, il traffico, le persone – rappresentano una certa fatica.

Abbiamo visto che il tipo di apatia di cui stiamo parlando è fisiologica; ci sono degli elementi nell’attuale società che contribuiscono ad accentuarla?
Da un lato i modelli promossi dai social network, vincenti senza il minimo sforzo. Sempre sui social, i nostri stessi ragazzi hanno continuamente la possibilità di ricevere una soddisfazione immediata al loro desiderio, al loro stimolo. Facendo un paragone, se adesso si può guardare un’intera serie con un clic, noi dovevamo aspettare anche una settimana per vedere la prossima puntata della serie del momento. Nel frattempo però ci immaginavamo, ne parlavamo, costruendo così un pensiero e contribuendo anche alla costruzione della nostra psiche. L’attuale bombardamento di stimoli crea assuefazione. Degli studi condotti sul cervello hanno dimostrato che all’interno di esso si attivano gli stessi circuiti neuronali di fronte alle notifiche, all’utilizzo dei social network e più in generale degli schermi che nella dipendenza da cocaina. Lavoro con le famiglie dal 2005 e posso affermare che non mi è quasi mai capitato di seguire ragazzi apatici dove non ci fosse di mezzo l’uso degli schermi.

Di nuovo, cosa possono fare i genitori a riguardo?
Io raccomando di parlare apertamente di cosa sia una dipendenza, di qualsiasi tipo. E poi mettersi d’accordo. I ragazzi sanno ragionare, sono svegli, brillanti, quando si riesce a parlare con loro. Si rendono conto che esagerano. Quando vengono in terapia chiedo di farmi vedere la statistica dell’utilizzo giornaliero dell’ultima settimana e spesso vedo cifre esorbitanti. Quello che consiglio è di stare sotto le tre ore monitorando il tempo di utilizzo attraverso delle app di controllo parentale. I genitori non devono avere paura di seguire i propri figli. 

In conclusione, in che modo la situazione che stiamo vivendo, in particolare i passati lockdown, hanno influito sul tema di cui ci stiamo occupando?
Sicuramente ha influito il fatto che sia venuta meno la socializzazione che, come abbiamo visto, per i ragazzi è tutto. C’è poi un altro elemento che riguarda l’espressività facciale, di cui pure abbiamo parlato prima. È comune nell’adolescenza «nascondersi» con i capelli o sotto i cappucci. Ora hanno la mascherina che in questo senso è uno strumento in più per farlo. La mascherina contribuisce quindi ad esacerbare questa tendenza all’inespressività.