Si torna alla paura, cifra della nostra epoca, che non a caso era stata, insieme a natura, la prima parola verde di questa serie. La paura che ricompare di questi tempi sotto un nome nuovo, preoccupante: ecoansia. Una parola nuova per un sintomo nuovo, calco dell’inglese ecoanxiety, la parola ecoansia è stata registrata come neologismo della lingua italiana dall’Enciclopedia Treccani nel 2022.
L’ecoansia è diversa dalla meteoropatia, che sarebbe la reazione dell’umore di alcune persone particolarmente sensibili ai ritmi stagionali, al freddo, alla pioggia e al bel tempo. È invece una preoccupazione cronica per la sorte del pianeta che colpisce prevalentemente, pare, giovani ambientalisti. I sintomi sono tensione, angoscia, tristezza, apprensione, insonnia, e manifestazioni quali sudorazione, irrequietezza, pianto. Chi ne soffre può arrivare a prendere decisioni estreme come quella di non fare figli: sia per non sottoporli allo stress da inquinamento, sia per non permettere che altri abitanti del pianeta collaborino a distruggerlo.
Su queste posizioni si ritrova Lalitha, personaggio del romanzo Libertà di Jonathan Franzen (Freedom, 2010). Ha 27 anni, non vuole avere figli. Le sue motivazioni a non procreare sono di natura strettamente ecologica: la Terra è già sovrappopolata, la specie umana si è rivelata la più nociva per l’ambiente che da essa è stato distrutto e inquinato in maniera forse irreversibile. Perché ostinarsi nella follia della riproduzione a ogni costo? Perché, ci chiediamo insieme a Lalitha, consegnare i nostri figli a vite che saranno devastate da alluvioni e aridità, da riscaldamento anzi da «ebollizione globale», come ha detto il segretario dell’Onu Antonio Guterres suscitando ancor più ecoansia? Eppure, mettere al mondo figli vuol dire in ogni caso confrontarsi con il loro contingente malessere e con la loro necessaria mortalità…
Tornando ai sentimenti e agli stati d’animo scatenati dal riscaldamento climatico e dall’inquinamento ambientale perché, mi chiedo, invece di curarne i sintomi col Prozac non li trasformiamo in indignazione, un bel sentimento positivo e propositivo? Indignazione non soltanto contro le scellerate iniziative di politica economica; no, anche contro la mentalità che vorrebbe promuovere lo sviluppo sostenibile da una parte e dall’altra mantenere i propri privilegi senza modificare in modo sostanziale gli standard di consumo del mondo industrializzato; mentalità propagandata per esempio dal guru verde Bill Gates con il suo soluzionismo (più tecnica salverà dai danni della tecnica!). Insomma, contro l’ecoansia una bella terapia attiva: che ognuno per sé riduca sprechi e consumi idioti, e si impegni insieme ad altri per un uso equo delle risorse, per una giustizia globale contro l’ebollizione globale. Si diceva anni fa che «Platone è meglio del Prozac» (era il titolo di un fortunato libro di Lou Marinoff); che più efficace dei farmaci è la cura che nasce dalla riflessione filosofica, dal porre domande, dal dialogo socratico. Potremmo modificare i termini e dire che «L’indignazione è meglio del Prozac», e ancor meglio è agire, spinti dallo sdegno, e cominciare a usare i mezzi pubblici, a non sprecare, a mettersi un golf in più e a scaldare di meno. Lo so, lo sappiamo che ci daranno degli ingenui, diranno che è come spostare sdraio sul ponte del Titanic che affonda, ma forse no, e forse ci servirà anche per superare ansia ed ecoansia.