Lo scorso 8 marzo le donne di molti Paesi sono scese in strada a manifestare contro le disparità, le discriminazioni e le violenze. In Italia molte donne hanno marciato insieme su invito del movimento «Non una di meno». Sugli striscioni si leggeva: «Se le nostre vite non valgono, allora noi scioperiamo». Eppure ogni giorno leggiamo il giornale, guardiamo la tv, scopriamo un nuovo episodio di femminicidio. Quelle storie, al di là delle pagine, al di là dei video, continuano, proseguono, e si incagliano nei vissuti di chi si trova ad aver perso una figlia, una sorella o proprio una madre. Sono 1600 secondo uno studio portato avanti da un gruppo di Università, incluso il Dipartimento di psicologia della Federico II di Napoli e finanziato dall’UE, i figli di madri uccise da padri dispotici, autoritari, violenti. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze marginalizzati, spesso guardati con occhi ricolmi di commiserazione, scrutati per capire che cos’è il dolore quando si abbatte con violenza straordinaria su un percorso ancora in costruzione.
Per capire meglio in che cosa consiste il vissuto di questi bambini e di queste bambine abbiamo intervistato Anna Costanza Baldry, psicologa, criminologa e docente presso l’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli: lei stessa ha intervistato 143 di questi orfani.
Dottoressa Baldry, cosa diventa la vita di chi ha subito la perdita della propria madre per mano del proprio padre?
Questi bambini, che io chiamo «orfani speciali», perché in un colpo solo perdono sia la madre che il padre, sono dei terremotati; vivono come se fossero in guerra, non hanno più niente. Improvvisamente la loro esistenza si trova ad essere sconvolta dalle fondamenta: oltre alla violenza subita, che nel peggiore dei casi hanno visto con i loro occhi, molti di loro sono sradicati dagli ambienti fisici dove abitavano. Spesso vanno a stare con gli zii o i nonni che vivono altrove, quindi devono cambiare casa e scuola, adattarsi a un nuovo ambiente, con tutte le difficoltà che questo comporta quando c’è di mezzo un trauma così forte.
Non è semplice avvicinarsi ad un bambino che ha subito tutto questo. Spesso si cerca di parlare d’altro, di sviare la sua attenzione.
Gli adulti spesso lo fanno. A volte, quando i bambini non sono a conoscenza della situazione, ritengono che sia giusto mentire o prendere tempo, dicendo per esempio che la mamma è in ospedale e sta poco bene. Non sto dando giudizi di merito, ma con il nostro studio abbiamo voluto stilare delle linee guida per dare delle indicazioni di massima al fine di meglio orientarsi quando ci si trova davanti a questi casi e che potranno essere utili ai familiari ma anche agli insegnanti, agli assistenti sociali e a chiunque abbia a che fare con l’infanzia. Aiutare il bambino a parlarne, al posto di fare finta di niente o cambiare discorso, può essere per esempio di grande aiuto. I bambini spesso sanno di più di quanto si creda: il femminicidio raramente avviene da un momento all’altro, ma è preceduto da episodi di violenza di cui i figli sono al corrente. Questi bambini hanno bisogno di sentirsi dire la verità e di poter partecipare al funerale della propria madre, affinché possa partire il processo di rielaborazione del lutto. Altra cosa fondamentale è che al bambino sia fornito un accompagnamento terapeutico, ma non solo temporaneamente: nel tempo. Quello che è emerso da questo studio è che un sostegno gratuito nel tempo non c’è. È un problema perché si crea un danno nel danno, soprattutto in quei casi in cui i bambini non possono permetterselo privatamente.
Molti figli di madri che non ci sono più sono presi a carico dagli zii o dai nonni. Lei ha incontrato alcune di queste famiglie? Come riescono a ripartire dopo un lutto così lacerante?
Una costante che ho riscontrato in molte famiglie è la focalizzazione sul minore e la messa da parte del proprio lutto e del proprio dolore. Insisto anche in questo caso sull’importanza di essere seguiti: un percorso di recupero e di sostegno può aiutare zii, nonni o persone vicine alla vittima ad adempiere il compito di famiglia affidataria meglio, recuperando a poco a poco un po’ di serenità.
Le figlie delle vittime chi saranno domani?
Dipende: non c’è un nesso fra l’aver visto la propria madre uccisa dal proprio padre e il trovare un domani un uomo brutale. Può succedere, evidentemente, ma può capitare anche a chi ha assistito alla violenza fisica o verbale nei confronti della propria madre senza che questa degeneri in omicidio. È un fattore di rischio, ma attenzione ai facili sillogismi: ho visto bambini che, nonostante le violenze subite, sono riusciti a trovare delle risorse enormi.
Come si pongono di fronte ai loro padri?
Ognuno reagisce in modo diverso: c’è quello che vuole cambiare cognome e non vuole più averci a che fare, quello che quando il padre esce dal carcere cerca un contatto per capire i motivi che l’hanno spinto a un gesto tanto brutale.
Quale frase o quali parole sentite da chi è vittima di un trauma del genere l’ha davvero colpita?
Una ragazza, che a otto anni ha perso la madre per mano del padre, mi ha detto: «A un certo punto ho dovuto fare una scelta: o rimanere per sempre nel dolore di questa perdita, o passare oltre. La vita continua». È vero, la vita continua, anche se a fatica. Questi bambini, oltretutto, si portano dietro un senso di vergogna. Il fatto di aver perso la madre in modo così poco nobile grava sulle loro spalle; spesso, poi, soprattutto nei piccoli paesi, devono fare i conti con il giudizio più o meno nascosto degli altri. Spesso non solo non possono parlarne con nessuno, ma hanno la brutta sensazione di avere gli occhi addosso. Frasi come «quello è il figlio di», «però forse lei se l’è cercata, voleva lasciare suo marito», sono pesanti come macigni.