La violenza dell’uomo normale

Reati contro le donne 1 – In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre abbiamo intervistato Cristina Oddone autrice del libro Uomini normali. Maschilità e violenza nell’intimità
/ 22.11.2021
di Guido Grilli

È stata a tu per tu con gli uomini violenti, ha raccolto e analizzato le loro narrazioni, ha assistito agli incontri di gruppo degli aggressori ospitati nel Centro di ascolto per uomini maltrattanti (Cam) di Firenze. E infine ha condensato la propria indagine in un’ampia ricerca etnografica. Se negli ultimi anni il femminicidio e la violenza contro le donne hanno ottenuto crescente visibilità, rimangono invece in gran parte inesplorati molti aspetti riguardanti gli autori di questi reati. Uomini normali. Maschilità e violenza nell’intimità è il titolo del libro di Cristina Oddone, ricercatrice in sociologia, docente affiliata al Laboratorio Dyname dell’Università di Strasburgo e già collaboratrice della Violence against Women Division del Consiglio d’Europa per il monitoraggio dell’applicazione della Convenzione di Istanbul. L’autrice genovese sarà ospite della conferenza pubblica in programma lunedì 29 novembre alle 18 alla Biblioteca cantonale di Bellinzona, dove esporrà i contenuti della sua indagine. Interverranno Norman Gobbi, direttore del Dipartimento delle istituzioni, Siva Steiner e Marlene Masino, rispettivamente capoufficio e caposervizio dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa, attivo da tempo nella presa a carico di autori di violenza domestica.

Chi sono, dunque, gli autori di violenza contro le donne? «Il titolo del mio libro – dichiara Cristina Oddone, da noi raggiunta telefonicamente a Strasburgo – vuole proprio rispondere a questa domanda. Gli autori di violenza noi ce li immaginiamo come delle figure mostruose, persone con problemi psichiatrici, come delle persone marginali. In realtà sono uomini normali. Sono uomini di tutti i tipi, di diversi strati sociali, diverse professioni, con diversi livelli culturali. Le persone che io ho osservato al Cam di Firenze, che è un centro di ascolto per uomini maltrattanti a partecipazione volontaria, cioè che intendono compiere un percorso psicoeducativo, sono uomini ordinari, comuni, che legittimano le proprie pratiche attraverso una precisa visione dei rapporti di genere. Mantengono come pilastro fondamentale l’idea che un uomo ha la legittimità per esercitare una forma di controllo e di potere sulla propria partner».

Nel suo libro emerge fra l’altro come la violenza degli uomini nelle relazioni di intimità sia una condotta maschile finalizzata a mantenere o a ristabilire potere e controllo sulla «propria» donna e sulle donne in generale. «Mi rifaccio qui alla tradizione di studi femministi che ha elaborato questo concetto. A partire dagli anni Settanta-Ottanta sia le operatrici dei primi centri di anti-violenza e di auto-aiuto, sia ricercatrici, sociologhe e antropologhe hanno studiato gli aspetti del potere e del controllo. La violenza sulla propria compagna non è solo una pratica individuale tesa al controllo della propria partner, ma anche volta a disciplinare le donne come gruppo sociale. Questo diventa exemplum di ciò che si può o non si può fare, di quali sono i limiti della libertà di azione per le donne. La violenza diventa una forma di sanzione, volta a imporre i confini della sovranità femminile. Un esempio? Quando, durante un litigio, la donna si dimostra assertiva, ribatte, decide sull’educazione dei figli: gli “uomini normali” che ho potuto osservare al Cam non accettano questo tipo di scavalcamento. È ancora molto diffuso il retaggio della figura del capo famiglia. E quindi la violenza diventa una “risorsa” non solo per controllare le donne, ma anche perché essa serve agli uomini per essere uomini. La violenza è una “performance di genere”, per usare le parole di Judith Butler, una messinscena quotidiana, ritualizzata, quasi un automatismo, che più legittima la maschilità di chi la pratica. Quindi, in qualche modo, un’identità maschile minacciata, che ha la necessità di affermarsi, ricorre alla violenza proprio per ristabilirsi: gli uomini fanno violenza anche per confermare la propria identità di uomini (adulti ed eterosessuali) rispetto a una comunità immaginata di uomini. Già, perché l’antagonismo tra uomini e donne è solo una parte del problema. Gli uomini sono in costante competizione con la comunità di uomini».

Lei sostiene che la violenza sulle donne è di tipo strutturale e non emergenziale. Cosa significa? «In Italia nel 2012 si è cominciato a parlare di femminicidio, il termine comincia ad essere utilizzato dai media e le cronache su questi fatti di violenza hanno iniziato a moltiplicarsi. Sui giornali se ne riferisce in termini emergenziali: nel senso che se all’inizio non se ne parlava per niente – ho proprio svolto, su questo, un confronto tra i titoli del “Corriere della Sera” negli anni Settanta, quando l’omicidio di una donna era considerato un omicidio come gli altri e non veniva messa in evidenza la dimensione di genere – e poi nel 2012, quando finalmente se ne parla, si sottolineano alcuni aspetti in particolare, per esempio quando questo tipo di omicidio viene perpetrato da un migrante, da un disoccupato o da persone considerate “asociali”, per connotarne l’aspetto eccezionale. In realtà la violenza sulle donne è strutturale, perché riguarda i rapporti di potere tra uomini e donne in tutta la società».

Tra i numerosi episodi di violenza da lei raccolti al Centro di ascolto di Firenze e riportati nel suo libro, c’è quello di un uomo che sostiene di aver preso coscienza della violenza inferta sulla propria compagna solo dopo aver percepito lo sguardo dei medici dell’ospedale in cui ha accompagnato la sua vittima. «Fino a quel momento l’autore non ne era consapevole. Nel libro riunisco diverse testimonianze in cui i maltrattanti raccontano di aver preso atto di aver superato un limite (nelle loro narrazioni è frequente un “prima” e un “dopo) purtroppo solo quando vedono le conseguenze materiali dei loro atti – una frattura, un referto medico. Solo allora avvertono la necessità di rivolgersi a uno specialista. Un’ulteriore presa di coscienza sopraggiunge quando prendono consapevolezza del danno sui figli. Altrimenti, rimangono convinti che è la loro compagna a provocare in loro la violenza, si sentono vittime. Per questi uomini assumere la responsabilità dei propri atti è molto difficile, tendono a non riconoscere la propria soggettività e attribuiscono alle donne l’esito di determinate situazioni di violenza».

Qual è, secondo quanto ha potuto constatare al Cam, la via di uscita dalla violenza? «La trasformazione avviene quando gli uomini abbandonano le pratiche violente e i discorsi che le legittimano. È a quel punto che si arrestano le violenze più eclatanti, soprattutto fisiche e sessuali. Quello che è più difficile da scardinare sono invece le forme di manipolazione e violenza psicologica, le gerarchie tra uomini e donne all’interno della coppia. L’aspetto importante è che al Cam, al termine del percorso psicoeducativo, gli uomini violenti acquisiscono nuove competenze sul proprio comportamento. In alcuni casi imparano ad ascoltare e risolvere i conflitti in maniera non violenta. In altri, invece, gli uomini acquisiscono nuove competenze per ristabilire di nuovo una gerarchia tra loro e la partner. E quindi è importante verificare che questa non diventi una nuova forma di potere e di controllo. A molti livelli la società legittima la violenza maschile e i rapporti di potere e patriarcali: nella televisione, nelle industrie culturali, al cinema viene celebrata continuamente una maschilità attiva, aggressiva, prevaricatrice. Le asimmetrie tra uomini e donne sono persistenti».

Quali soluzioni occorre intraprendere? «Oggi abbiamo diversi strumenti, come la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, alla quale la Svizzera ha pure aderito, che insiste sulla protezione delle vittime, sulla prevenzione della violenza, sulla persecuzione dei reati e sulla necessità di mettere in pratica politiche integrate in risposta alla violenza. Dal profilo più culturale e sociale è invece importante l’educazione che trasmettiamo ai bambini fin dalla loro prima infanzia: lavorare sulla parità di genere, sin dalla scuola materna, sulle pari opportunità. Parlare di “uomini normali” non vuole dire che tutti gli uomini fanno violenza ma che ancora la violenza nelle relazioni intime è per lo più esercitata dagli uomini contro le donne. Non vuole essere un’accusa contro i maschi o la volontà di trovare capri espiatori. Nemmeno bisogna pensare che una società sempre più femminista sarà “vendicativa” nei confronti degli uomini. Diversamente, occorre mettere sul tavolo la questione dei rapporti di potere e affrontarla apertamente».