La verità molecolare che sta dietro la madeleine

Ricerca - A cent’anni dalla nascita di Proust, le neuroscienze ne stanno studiando l’opera
/ 08.08.2022
di Lorenzo De Carli

Il blogger Nicolas Ragonneau sta emergendo come il più originale studioso di Marcel Proust, rinnovando profondamente la conoscenza di À la recherche du temps perdu con un volume intitolato: Le proustographe. Proust et «À la recherche du temps» en infographe, pubblicato da Denoël. Si tratta di un’opera che non ha eguali e che solo un autore giunto assai tardi alla conoscenza della Recherche, e – per così dire – per vie traverse ha potuto realizzare: una vera e propria enciclopedia visiva di Proust e della sua opera.

In una infografica, per esempio, leggiamo la frase più corta della Recherche, costituita di una sola parola, accanto a quella più lunga: un periodo grammaticale di 931 parole, che si legge in Sodome et Gomorrhe. In un’altra pagina, invece, vediamo l’infografica di chi, nella Recherche, ama chi; scoprendo che l’opera di Proust, tra le prime a definire i suoi personaggi in funzione della loro sessualità, è un inno alla bisessualità.

La vita di Proust si svolse pressoché tutta a Parigi, in pochi chilometri quadrati nella riva destra della Senna, e negli ultimi anni lasciava raramente la sua stanza tappezzata di sughero. L’idea che molti si son fatti di lui, come di un uomo ritiratosi dal mondo, totalmente immerso nella stesura della sua opera, è un’idea corretta. In due infografiche di Ragonneau, però, leggiamo anche il prezzo di quella vita sacrificata sull’altare della letteratura. Asmatico, insonne, ansioso e tormentato dai mali più disparati, Proust divenne uno dei più grandi tossicomani della storia della letteratura. Il padre e il fratello, entrambi medici, poco poterono per interrompere la spirale di una infernale automedicazione, usando la belladonna e la morfina per l’asma; l’adrenalina e la caffeina per vincere il sonno; il trional, il tetronal, l’oppio e il veronal, invece, per cercar di dormire. È probabilmente proprio in questa deliberata automanipolazione dei suoi stati psichici che Proust divenne una specie di neuroscienziato.

Negli ultimi dieci anni è cresciuto l’interesse dei neuroscienziati per la Recherche, e in particolare per quegli episodi che il suo autore definiva di «memoria involontaria». Non possiamo chiedere agli scienziati che si occupano del cervello di conoscere anche il contesto storico e culturale in cui nacque questo o quel classico della letteratura, ma per Proust – lettore di Henry Bergson e del suo Matière et mémoire – la memoria doveva essere argomento di riflessione continua perché, secondo lui, era il passato a definire il senso del presente.

D’altra parte, la letteratura coeva alla Recherche era estremamente ricettiva al tema dell’improvviso apparire del passato e del senso che dovremmo attribuire a questi episodi – basti pensare a quelle che James Joyce chiamava «epifanie»; e qualche decennio dopo alla diluizione del passato nel presente e viceversa che Virginia Woolf descrisse nel suo romanzo The Waves. Si trattava anche in un contesto culturale, nel quale le scoperte della psicanalisi giustificavano l’esplorazione narrativa di stati della coscienza descritti solo occasionalmente in passato ma che la letteratura stava ormai sistematicamente battendo come nuovi territori.

Per alcuni studiosi della mente che si sono avvicinati negli ultimi anni a Proust – come per esempio in Inghilterra Emily Troscianko e in Germania Hannah Monyer – il contesto storico nel quale operò Proust, così come le arti coeve, sono poco rilevanti. Diverso è invece il caso di Jonah Lehrer, che ha studiato pittori come Paul Cézanne o musicisti come Igor Stravinskij, o scrittrici come Gertrude Stein e Virginia Woolf, mettendo in luce nel suo Proust era un neuroscienziato quanto essi siano acuti nel descrivere fenomeni percettivi oggi studiati dalle neuroscienze.

Se dal punto di vista delle «verità» che il narratore della Recherche scopre grazie ai ricordi involontari, l’episodio più importante è l’ultimo – quello del contatto con il lastricato sconnesso nel cortile di palazzo Guermantes, che innesca la resurrezione di San Marco e che gli fa comprendere che la vita vera si manifesta quando nel presente sentiamo vibrare il passato, quando si verifica il pieno sovrapporsi del «qui» con l’«altrove» di un passato che sopraggiunge per ingravidare di senso il presente – dal punto di vista delle neuroscienze, però, non è un caso che l’episodio della madeleine sia il primo della serie perché gusto e olfatto «sono gli unici ad avere un collegamento diretto con l’ippocampo, il centro della memoria a lungo termine».

Le neuroscienze, chiarisce Lehrer, ci spiegano che «i nostri ricordi esistono come lievi alterazioni della forza delle sinapsi, che facilitano la comunicazione tra neuroni»: ricordiamo, cioè, perché, in un certo momento, i nostri neuroni assunsero una certa configurazione, stabilizzatasi nel tempo. Esperimenti recenti, hanno messo in rilievo che «il ricordo si altera in assenza dello stimolo originario e riguarda sempre meno il suo oggetto e sempre più noi» – scrive Lehrer. Per un verso, quindi, il «ricordo esige una certa costruzione cellulare», grazie alla quale l’esperienza che facciamo del mondo viene incorporata nel cervello; me per l’altro verso, nell’atto di ricordare, il nostro referente non è più ciò che abbiamo esperito del mondo, bensì il ricordo – il quale, a sua volta, genera copie modificate di sé stesso per mezzo di nuove configurazioni neurali. Ma come avvengono queste nuove configurazioni?

Kausik Si – neuroscienziato che lavora nel laboratorio del premio Nobel Eric Kandel alla Columbia University – è il ricercatore che sembra essere sulla buona strada per descrivere la biologia molecolare della Recherche: «quando apprendiamo qualcosa e formiamo ricordi di lungo termine, si stabiliscono nuove connessioni sinaptiche, e i prioni solubili in quelle sinapsi sono convertiti in prioni aggregati. I prioni aggregati attivano la sintesi proteica necessaria per mantenere la memoria». Kausik Si ha scoperto che è il gene CPEB3 a codificare per la proteina che marca come ricordo una specifica ramificazione dendritica; e probabilmente è anche il meccanismo molecolare che ha fatto della madeleine la forza motrice della Recherche: «è solo quando il pasticcino viene inzuppato nel tè – scrive Lehrer –, quando la memoria viene richiamata in superficie, che la CPEB torna in vita. Il gusto del dolcetto scatena un flusso di nuovi trasmettitori verso i neuroni che rappresentano Combray e, se si raggiunge il punto di svolta, la CPEB attiva infetta i dendriti vicini. Da questo fremito molecolare nasce il ricordo».