Capita, nella vita, di arrivare all’età della pensione. È un momento in cui i ricordi si mescolano ai sogni e gli addii bilanciano gli incontri. Poi, si sa, nell’età della pensione a moltiplicarsi saranno gli addii. Resta aperta l’incognita degli incontri. Ce ne saranno ancora? Sotto sotto si pensa che no, di nuovi incontri non ce ne saranno più. Poi, invece, quasi per caso, ecco che incontri Omar Merlo. Luganese, dopo il liceo si prende un anno sabbatico per imparare l’inglese e parte per l’Australia. Dovrebbe rimanerci per un anno. Vi resta invece per diversi anni. Esattamente dodici. Quando ritorna, però, non raggiunge il Ticino, ma… il Regno Unito. La sua mèta è Cambridge. Lì mette su famiglia (ha due figli: Sophie e Frederik) e, dopo qualche anno, si trasferisce a Londra. Oggi il dottor Merlo è decano associato (relazioni esterne) e direttore accademico dei programmi MSc Strategic Marketing all’Imperial College Business School.
Dr. Merlo, andiamo con ordine, lei lascia Lugano per andare a imparare l’inglese in Australia e…
… e penso di restarci per un anno. Una full immersion e poi tornare. Infatti torno, ma prima faccio domanda di ammissione all’università di Melbourne. A differenza di quanto succede in Europa, i corsi universitari lì cominciano a marzo (che coincide con l’inizio dell’autunno). Non sapendo se mi avrebbero ammesso, al rientro in Svizzera mi iscrivo all’università di Friborgo dove ho frequentato un semestre. Poi però sono ripartito per l’Australia perché da Melbourne mi avevano fatto sapere che potevo iniziare i corsi. Grazie a borse di studio ho potuto realizzare il mio sogno di studiare in un sistema universitario anglosassone e sono restato in Australia 12 anni, fino a quando non ho vinto, nel 2005, il concorso a Cambridge. Ho sostenuto il colloquio a Cambridge ad agosto. Sono tornato in Australia e qualche mese dopo con la mia fidanzata (e il cane!) siamo partiti per Cambridge. Ci siamo spostati a Londra nel 2010. Adesso mi trovo all’Imperial College e continuo a proporre alcuni corsi a Cambridge.
Dr. Merlo, cosa significa insegnare marketing all’Imperial College Business School di Londra?
Il mio lavoro si struttura principalmente su quattro fronti. Il primo – che è fondante per l’Imperial College – è quello della ricerca. In pratica il mio obiettivo è quello di capire i problemi e le opportunità delle aziende per definire poi soluzioni in grado di garantire loro di mantenere, o migliorare, la propria posizione sul mercato. Secondo fronte d’impegno: allestire i programmi per il master in marketing e seguire gli studenti che scelgono quest’indirizzo. Terzo fronte: le relazioni esterne con altre università, enti e aziende. Quarto fronte: la consulenza diretta alle aziende. Ciò significa incontrare e insegnare business ai manager nel loro habitat.
Non possono venire loro (i manager) alla Business School?
Sì, certo. Possono. Le assicuro però che entrare in relazione con i manager laddove operano è meglio. È utile per loro e istruttivo per me. Così facendo entro infatti in contatto con i problemi veri del mondo del lavoro. Confrontando le reciproche opinioni ed esperienze riusciamo insieme ad individuare soluzioni concrete e praticabili. Senza contare che tutto ciò mi permette di acquisire elementi, di pormi domande utili per le mie ricerche.
E siamo tornati al «punto uno» del suo lavoro: la ricerca. Adesso di cosa si sta occupando?
Di alcuni progetti, tra i quali quello della resilienza dei brand, dei marchi, in un mondo dove anche solo un episodio negativo può mettere in crisi un’azienda. Soprattutto nell’èra digitale i brand possono infatti subire continue pressioni e qualsiasi problema può drasticamente amplificarsi. In aiuto viene la resilienza che può essere costruita attraverso forti relazioni con i clienti e la trasparenza del marchio. Gli esempi a sostegno del valore strategico dell’onestà non mancano. Recentemente, per una rivista specializzata, osservavo che le ricerche che svolgiamo all’Imperial College ci stanno portando a esplorare i modi in cui i marchi possono attivamente innescare immunità alle informazioni negative e abbiamo scoperto che i brand possono farlo stimolando specifici processi psicologici tra i clienti. Per esempio, abbiamo compreso che, chiedendo ai clienti come si sentirebbero nei confronti di un marchio se questo fosse colpito da ipotetiche informazioni negative, si può aumentare la difesa futura del brand stesso.
Lei insegna anche all’USI e in altre università. È sempre la stessa cosa?
La mia casa accademica è l’Imperial College, ma le collaborazioni esterne costituiscono parte integrante del mio lavoro. Ogni università e ogni collaborazione ha le sue peculiarità. Collaboro da diversi anni con l’Università della Svizzera italiana dove propongo un corso sulle relazioni con i clienti. Adesso, con la facoltà di Scienze della comunicazione, stiamo lavorando per realizzare un programma di scambio di studenti con l’Imperial College Business School. È un progetto importante e mi fa piacere poter contribuire alla sua realizzazione.
A Lugano insegna in italiano o in inglese?
In inglese. Lo ammetto: avrei qualche difficoltà, dopo tutti questi anni, a parlare di marketing in italiano.
Lei si sente più ticinese, australiano o britannico?
Io adesso ho 48 anni. A ben guardare la mia vita è suddivisa per 1/3 in Ticino, 1/3 in Australia e 1/3 nel Regno Unito. Mi sento, principalmente, ticinese. Il Ticino, per me, è casa. Sono però anche australiano. È l’Australia il paese che mi ha permesso di crescere, dove mi sono integrato a una giovane età e dove mi sono fidanzato. Poi sono anche britannico visto che qui vivo, lavoro e qui sto facendo crescere i miei figli. E poi, lo confesso, quando dall’Australia sono giunto in Inghilterra mi sembrava di essere tornato a casa. Londra e Lugano sono piuttosto vicine, no?
I suoi figli, Sophie e Frederik, stanno crescendo – ci diceva – in Inghilterra. Se decidessero di farlo lei li lascerà partire?
Sarebbe ipocrita non lasciarli partire, ma… dovranno presentare motivi validi.
E lei, che adesso collabora con l’USI, se nel 1993 ci fosse stata l’università a Lugano sarebbe partito ugualmente?
Sì, sarei partito ugualmente. Ambivo, come dicevo, a una full immersion in una cultura diversa. Chissà, forse sarei tornato prima. Forse sarei tornato per il master o il dottorato. Quel che è certo è che io consiglierei a tutti di vivere un’esperienza fuori dal luogo che considerano casa. Confrontarsi con modi di vivere diversi dal proprio rende più comprensivi e anche più critici. Inoltre ti apre la mente e rappresenta una sfida che ti costringe a crescere. Senza contare che negli anni australiani ho avuto la possibilità di stringere nuove amicizie. Ho lasciato molti amici in Australia. Mi mancano, di loro, il senso di collegialità, la schiettezza e la capacità di accoglienza.
Lei si sente un cervello in fuga?
No, non mi sento un cervello in fuga. Ho mantenuto molti contatti. Oltre all’USI, per esempio, ho collaborato con altre università tra le quali Losanna e l’ETH, con il Fondo nazionale svizzero della ricerca, e con diverse aziende elvetiche. Poi, a mio parere, parlare oggi di cervelli in fuga è un po’ anacronistico. Viviamo in piena globalizzazione e, come dice Thomas Lauren Friedman, in questo nostro XXI secolo «il mondo è sempre più piatto». E personalmente penso che un cervello possa fuggire anche leggendo un bel libro.