La retina è la sola zona del cervello di cui conosciamo il funzionamento di ogni neurone e Richard Masland è stato il ricercatore al quale si deve l’esplorazione più meticolosa del nostro sistema visivo. Neuroscienziato che insegnò alla Harvard Medical School fino all’anno del suo decesso avvenuto nel 2019, Masland inventò e mise in pratica tutta una serie di esperimenti che gli permisero di seguire i segnali percepiti dalle cellule della nostra retina, fino alle zone del cervello verso le quali si prolungano gli assoni che costituiscono il nervo ottico; e ancora oltre, verso le reti di neuroni, le quali collegano fra loro le varie zone del cervello che elaborano il segnale visivo.
Allievo dello psicologo canadese Donald Olding Hebb, Masland è sempre stato guidato dalla regola secondo cui «due neuroni che scaricano assieme si potenziano reciprocamente», arricchendo le sue ricerche di stimoli che provenivano da tante diverse discipline, come i modelli sviluppati dall’intelligenza artificiale o gli esperimenti di genetica, giungendo nei suoi ultimi anni di vita a porsi il problema di «chi vede» quando noi vediamo. Una terra inesplorata, nella quale si avventurò, sintetizzando le ricerche di una intera vita di oftalmologo in un saggio intitolato: Lo sappiamo quando lo vediamo. Cosa ci dice la neurobiologia della visione su come pensiamo.
I sensi del tatto e quello della vista – spiega Masland – hanno profonde analogie. Così come «le terminazioni di singoli neuroni tattili sono circondate da strutture cellulari specializzate, le quali inducono il neurone sensoriale a rispondere a diversi tipi di tocco», in modo simile «ciascuna fibra del nervo ottico riferisce al cervello relativamente a una piccola regione e a una caratteristica specifica della scena davanti a noi».
L’insieme di cellule che chiamiamo «retina» è costituito da neuroni e quello che comunemente designiamo con «nervo ottico» sono gli assoni che lasciano la zona della retina per raggiungere il cervello, più precisamente gli assoni delle cellule gangliari, che hanno lo scopo di raccogliere le prime informazioni già elaborate dalla retina, che funziona come una sorta di microprocessore.
Se il mondo davanti ai nostri occhi non ha soluzione di continuità, la retina funziona un po’ come una macchina fotografica digitale, dove ai pixel di questa, corrispondono i neuroni di quella. Ciò significa che, quando intercettato dai nostri occhi, il mondo esterno non è percepito come qualcosa di omogeneo bensì in maniera discontinua. È il cervello, che «interpreta la sinfonia di segnali in arrivo dalla retina», che fa emergere, dopo tutta una serie di passaggi tra reti neurali, un’immagine omogenea del mondo, e la ricerca di tutta una vita di Masland è stata orientata a seguire l’anfrattuoso circuito neurale che, partendo dai fotorecettori della retina, porta al cervello.
In che misura ciò che vediamo è costruzione del nostro cervello lo possiamo intuitivamente comprendere se pensiamo a quanto debole è la nostra visione periferica. Siccome nella parte centrale della retina, la fovea, la densità dei neuroni è maggiore rispetto alla retina periferica, la nostra acuità visiva è massima quando orientiamo lo sguardo in un punto fisso. Al di fuori di questa zona, siamo quasi cechi.
Se, ciò nonostante, siamo poco consapevoli della nostra scarsa visione periferica è – sostiene – Masland «perché abbiamo una memoria visiva degli oggetti nella scena, avendoli fissati prima con la nostra visione centrale». È un po’ come se, rapidamente, il nostro cervello fosse in grado di registrare quanto percepito dalla visione centrale, usando il ricordo di queste registrazioni per aiutare la visione periferica.
Aver catalogato tutti i tipi di neuroni della retina e averne seguito il prolungamento verso la corteccia visiva primaria significa anche aver compreso a che punto di questo percorso acquisiamo un certo tipo d’informazione. Il lavoro di ricerca di Masland, per esempio, ha consentito di individuare le cellule neurali che «scaricano» in corrispondenza della percezione di un margine, scoprendo in tal modo le cellule selettive all’orientamento. Questo lavoro di «estrazione dei dati» provenienti dalla retina avviene nella zona che gli scienziati della visione definivano «corteccia visiva» fino agli anni Novanta del secolo scorso, nel frattempo diventata un patchwork di zone, alcune delle quali con compiti precisi, come per esempio riconoscere i volti.
L’orientamento teorico di Masland, fortemente influenzato dalle reti neurali di Hebb, gli ha fornito i mezzi per comprendere come l’esperienza che facciamo del mondo addestra le nostre cellule attraverso il fenomeno del rinforzo per ripetizione. È in questo modo, per esempio, che ci sono cellule che apprendono a riconoscere la presenza di linee: gruppi di neuroni che hanno ripetutamente «scaricato assieme» in presenza di linee, hanno finito per produrre «un’associazione cellulare che rappresenta una linea». Un meccanismo semplice ma anche potente, che secondo Masland spiega anche fenomeni molto complessi.
È, certo, affascinante seguire le ricerche di Masland, quando, per esempio, taglia sottilissime fette di retina per identificarne i neuroni e sbrigliare la matassa degli assoni, così come quando, per esempio, con i suoi colleghi riesce a osservare, colorate e illuminate, le sinapsi che permettono la trasmissione d’informazioni dalla retina al cervello; ma è proprio là dove il terreno della scienza diventa più insicuro e inesplorato che Masland si espone di più, provando a dare una risposta alla domanda: «ma chi vede, quando noi vediamo?»
L’idea che solitamente ci facciamo è che ciascuno di noi è un po’ come un homunculus dentro il proprio cervello, e che da lì osserviamo il mondo e pilotiamo in nostro corpo. Per Masland si tratta di una illusione. Ciò che il neuroscienziato crede sia l’ipotesi più affidabile allo stato attuale delle ricerche è che non c’è nessuno, in verità, che vede. Che l’estesa rete neurale del nostro cervello, per un verso, apprende a vedere, a riconoscere il mondo e ad averne ricordo – esattamente come accade in tutti gli esseri viventi dotati di vista; e che, per l’altro verso, in virtù solo del suo grado di complessità, rende possibile l’emersione della sensazione di un punto di vista privato e soggettivo che s’illude di «essere l’osservatore».
Insomma, l’evoluzione, che già aveva selezionato la vista perché tratto utile alla sopravvivenza e alla riproduzione dei viventi, in noi ha anche selezionato l’autocoscienza – accoppiando i due tratti in modo da darci l’illusione di essere i soggetti che vedono con i nostri occhi.