Genetista famoso in tutto il mondo, a Luigi Luca Cavalli-Sforza – oggi quasi novantacinquenne – dobbiamo un progetto di ricerca tra i più importanti per conoscere la storia evolutiva della nostra specie: la Storia e geografia dei geni umani. Il lavoro di ricerca, condotto con Paolo Menozzi e Alberto Piazza, aveva messo a profitto i risultati ottenuti con la ricostruzione dell’albero evolutivo del genoma umano, trovando una forte correlazione con i rami evolutivi delle superfamiglie linguistiche, e dimostrando in tal modo che genetica e linguistica erano in grado di farci osservare l’itinerario seguito dalla nostra specie (Homo sapiens sapiens), dopo aver lasciata l’Africa 60’000 anni fa.
Sempre impegnato a raccontare la storia migratoria della nostra specie attraverso le più recenti evidenze scientifiche in un’ampia vastità di campi del sapere, che vanno da quelle paleoantropologiche a quelle ecologiche, passando dalle evidenze microbiologiche, da quelle linguistiche a quelle genetiche, senza trascurare le evidenze climatologiche, Cavalli-Sforza ha recentemente curato, insieme a Telmo Pievani, la mostra Homo Sapiens. Le nuove storie dell’evoluzione umana, in corso al Museo delle culture di Milano (fino al 26 febbraio). La mostra interattiva e multidisciplinare propone una ricostruzione della grande storia della diversità umana letta attraverso i geni, i popoli e le lingue.
Una scrittrice e saggista italiana, Daniela Padoan, che da anni si occupa di testimonianza della Shoah e di resistenza femminile alle dittature, ha scritto con Cavalli-Sforza un libro in forma di dialogo intitolato Razzismo e noismo, andando alla ricerca di come nel corso della nostra traiettoria evolutiva – e quindi anche prima della storia scritta – abbiamo vissuto il rapporto noi-altri, cercando di comprendere quando e perché sono apparse le forme di dominio che caratterizzano le società complesse e quando ha preso forma il razzismo. Si tratta di un dialogo non sempre facile perché il linguaggio dello scienziato, che vorrebbe essere neutro e descrittivo, è spesso come posto su un piano diverso, rispetto al linguaggio dell’umanista, il quale, per contro, è caratterizzato dalla fortissima presenza di «connotazioni» che fanno riferimento o a particolari orientamenti ideologici, o a particolari tradizioni culturali, oppure a specifiche epoche storiche. Ciò nondimeno lo scambio di punti di vista è molto interessante perché contiene la riflessione filosofica e la ricostruzione storica dentro gli argini forniti da dati della scienza, e, nello stesso tempo, mette in evidenza come quest’ultima, non solo è sempre stata soggetta a forzature ideologiche (pensiamo, per esempio, al cosiddetto «darwinismo sociale» o all’eugenetica messa al servizio del dominio politico), ma è sempre stata anch’essa una pratica sociale dipendente dal contesto storico contingente.
Cavalli-Sforza non dubita che la nostra specie conobbe un punto di svolta 10’000 anni fa, quando – domesticate piante e animali – con la cosiddetta «rivoluzione agricola» le popolazioni umane, prima tutte di cacciatori-raccoglitori, divennero sedentarie, dedite all’agricoltura e alla pastorizia. «Quella straordinaria invenzione ebbe un notevole effetto sulla demografia e quelle prime popolazioni di agricoltori e allevatori cominciarono a riprodursi di più» dice lo studioso italiano. In circa cinquemila anni, gli agricoltori «si irradiarono nei territori europei abitati da cacciatori-raccoglitori e poco per volta li soppiantarono».
L’agricoltura fece emergere il concetto di «proprietà privata», tutt’ora pressoché ignoto nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori rimaste. Essa consentì la produzione di un surplus alimentare che permise l’esistenza di gruppi umani liberi dalla necessità di procacciarsi cibo, specializzandosi in attività come la guerra, il commercio, la produzione e la diffusione di conoscenza; nonché la creazione di gerarchie sociali prima ignote. Anche il rapporto tra uomini e donne cambia: «con la nascita delle prime civiltà, la donna diventa generatrice biologica di una prole della quale il patriarcato si è assicurato la proprietà»; contemporaneamente, mano a mano che la ricerca di nuove terre da coltivare promosse le guerre, prese luogo una pratica anch’essa ignota ai cacciatori-raccoglitori: la schiavitù. «Tutto l’edificio della nostra cultura – dice Cavalli-Sforza – si è in larga misura fondato sulla schiavitù».
Il dialogo tra Cavalli-Sforza e Daniela Padoan attraversa tempi storici, di cui non sempre abbiamo documentazione. Il genetista italiano osserva che tutte le civiltà fanno riferimento ad un’«età aurea», in cui l’esistenza era priva di conflitti e l’accesso al cibo garantito da una natura generosa. I dati paleolitici ci dicono che, nella nostra migrazione che ci ha portati in tutto il pianeta, abbiamo spesso incontrato una situazione simile, quando i frutti erano facilmente disponibili e la megafauna di tutti i continenti era cibo che ci si poteva procurare quasi senza sforzo. Fu l’incremento demografico e la nascita di società più articolate e, soprattutto, la rottura dell’equilibrio con l’ambiente, che causò l’insorgere di una situazione paragonabile all’«uscita dal paradiso» e la manifestazione di conflitti tra popolazioni ritenute di «razze» diverse. «Eppure una serie di fenomeni ci mostrano che il razzismo non è altro che una modificazione patologica di tendenze piuttosto importanti per la vita dell’uomo», infatti il noi ha sempre avuto una funzione protettiva per la nostra specie, consentendo a gruppi di individui affini e coordinati di far fronte alle avversità con un’efficienza migliore.
Oggi, educazione e cultura dovrebbero incoraggiare la costruzione di argini legislativi per contrastare comportamenti etnocentrici e xenofobi, i quali, se pure affondano in tendenze ataviche, in epoca di globalizzazione non sono più adattamenti bensì disadattamenti perché rischiano di creare conflitti o situazioni di degrado ambientali tali, da minacciare la sopravvivenza stessa della nostra specie.