La storia di Alicia

Incontri – Dal Messico al Ticino e ora in Colombia: Alicia Tellez ci racconta come è diventata cooperante di Comundo per aiutare i ragazzi ad avere fiducia in se stessi attraverso il teatro e il circo
/ 05.02.2018
di Laura Di Corcia

Se dovessi stilare una classifica delle parole maggiormente utilizzate da Alicia Tellez nel corso della nostra conversazione, ebbene «resilienza» avrebbe il primo posto incontestato. Un termine che da una parte richiama il passato, sul quale però spende poche parole – «La mia era una famiglia molto disfunzionale e molto violenta, non avevo appigli; quando hanno ammazzato il mio capo per motivi di lavoro, ho deciso di andarmene via dal Messico» – dall’altra il presente, le persone che la circondano oggi, i bambini, gli adolescenti e le donne colombiani che sostanziano la sua esperienza come cooperante per l’associazione svizzera Comundo in una delle periferie più pericolose della Colombia. 

La incontro al ristorante della stazione, in pieno centro a Lugano; fa freddo e il Natale alle porte galvanizza la città. Le parole di Alicia, capelli rosa e corti, parole dirette e senza fronzoli, sono una navicella spaziale in grado di polverizzare le distanze. «Quando a 24 anni ho deciso di lasciare il Messico, ho pensato che avrei voluto trasferirmi in un Paese democratico, dove alle donne venisse attribuito un valore maggiore di quello che si attribuisce ad un oggetto – mi racconta – per questo sono arrivata in Svizzera». Il nostro Paese non ha soddisfatto appieno le aspettative della giovane Alicia, che sperava di trovare le contraddizioni sociali che aveva già conosciuto in America latina completamente annullate o perlomeno armonizzate. «In Messico ero una donna bianca, qui non più. No, signora, lei è olivastra – mi dicevano le commesse – non abbiamo cosmetici adatti alla sua pelle. Per strada spesso venivo fermata con offerte ambigue. Avevo studiato semiologia, avevo lavorato per il governo messicano e mi ritenevo un’intellettuale: essere scambiata per una prostituta non è stato semplice. Le mie fattezze, le mie misure, la mia altezza, il colore della mia pelle, tutto questo ha condizionato parecchio i miei rapporti con una parte della società ticinese. Pensavo che la parità fra uomo e donna fosse qualcosa di assodato, e invece quando ci ho messo il naso sono rimasta un po’ delusa. Non a caso ho lavorato per tre anni e mezzo come volontaria nel Consultorio per le donne». Lì Alicia ha potuto conoscere una Svizzera diversa, intrisa di valori democratici, una Svizzera dove nascevano i progetti, come Radix o il servizio di pianificazione familiare. La popolazione normale la trattava come una straniera, le persone coinvolte in quei progetti invece la sostenevano e le mostravano empatia.

«Grande discriminazione da una parte, grande solidarietà dall’altra: sono due binari che mi hanno accompagnata sempre, fino a quando non ho partorito mio figlio. Sono diventata una mamma con un bimbo appresso: a quel punto sparisci come donna, ma diventi più rispettabile a livello sociale». 

Alicia per un po’ di anni si concentra sul suo ruolo di madre. Lascia da parte la carriera di attrice, cominciata studiando con la regista argentina e luganese di adozione Cristina Castrillo, e inizia a lavorare come formatrice. Ma il trauma vissuto durante l’infanzia è ancora lì e qualche volta – nei momenti più difficili – bussa ancora alla porta. «Fino a quando sei vittima, sei intrappolata in un vissuto che non superi mai e che si ripresenta ogni giorno anche se con una faccia diversa. Ma quando diventi una sopravvissuta, com’è ora il mio caso, prendi in mano presente e futuro: può capitare persino di partire per l’avventura e andare a fare la cooperante in Colombia». 

Alicia ha capito, una volta che suo figlio era cresciuto, che avrebbe dovuto dare un nuovo corso alla sua esistenza, impegnarsi in un nuovo progetto: dopo la scuola di drammaterapia a Lecco ha deciso di spendersi in qualcosa di grande nel suo Sud America. E così oggi collabora con un circo in Colombia e aiuta i giovani a trovare l’autostima e la fiducia in se stessi, attivando processi di resilienza. «Sono ad Aguablanca, un quartiere della città di Cali una città dove le persone hanno 17 centimetri di spazio pubblico a testa. È uno dei luoghi più pericolosi della Colombia. Le bande criminali comandate dagli ex paramilitari contrattano ragazzini di 10-12 anni e li usano come spacciatori, ladri, addirittura sicari. Sotto i 14 anni si sa che le conseguenze sono meno gravi, ecco il motivo. I ragazzi più vulnerabili sono gli afro-discendenti maschi».

Alicia è qui per il periodo natalizio ma è in Colombia già da più di un anno. Quando nel quartiere avviene un omicidio e si sente la tensione fra le bande, gira i tacchi e se ne va. «Sono una donna paurosa. Quando ho paura, ascolto il mio istinto e scappo. Me ne sono scappata anche dal Messico». Ma poi torna. E piano piano sta mettendo insieme un gruppo di donne. «In Colombia è difficile non trovare una donna che non abbia subito un abuso o una molestia. È un problema trasversale, riguarda 4 donne su 5 e sia le classi alte che basse. La Colombia patisce da 50 anni conflitti armati. Immaginiamoci quanti maltrattamenti e abusi sessuali possono aver subito le nostre sorelle». 

Il mandato di Alicia dura tre anni. E dopo? «Mi piacerebbe farne un altro». Il passato non si può cambiare. Ma se abbiamo il coraggio di uscire dal ruolo di vittime, il futuro è lì e ci aspetta.