Lo psicologo Nicola Ghezzani

La specie malata

Intervista – Nicola Ghezzani è psicologo clinico e psicoterapeuta. Nel suo ultimo libro analizza come gli esseri umani vengano condizionati dai miti dell’individualismo. Per cambiare rotta propone la geopsicologia
/ 03.08.2020
di Stefania Prandi

Nicola Ghezzani è psicologo clinico, psicoterapeuta e autore di saggi su ansia, narcisismo, depressione e relazioni d’amore. Nel suo ultimo libro, La specie malata (Franco Angeli), analizza come gli esseri umani vengano condizionati dai miti dell’individualismo. Nelle società contemporanee prevalgono egoismo e competitività e dilaga la disperazione solitaria di chi non si adatta. Ghezzani propone un modello terapeutico adeguato alla complessità dei tempi, risultato di decenni di osservazione diretta sui pazienti: la geopsicologia.

Nicola Ghezzani, lei spiega che l’umanità è in bilico fra generosità ed egoismo, speranza e disperazione, con tendenza all’individualismo. Può spiegarci la sua visione?
La natura umana è dotata di due bisogni biologici fondamentali, di origine organica ma che vengono codificati socialmente. Il primo è il bisogno di appartenenza, la tendenza a sentire e vivere insieme agli altri. Fin da piccoli siamo predisposti ad essere sociali. Il secondo bisogno è di individuazione, cioè di autonomia e autorealizzazione: oltre a sentirci connessi con le persone intorno a noi, dobbiamo sviluppare al meglio la nostra unicità. L’individuazione è la capacità di dare il meglio di sé interagendo con chi si ama di più, nel contesto della vita di relazione. Tra il 1400 e il 1500, con il Rinascimento, quando ha iniziato a svilupparsi la cultura borghese, l’individuazione è deviata verso l’individualismo, che consiste nell’esprimere il meglio di sé in competizione con gli altri, contro gli altri. Una delle conseguenze di questa perversione del bisogno di individuazione è l’invidia. Ai giorni nostri la situazione è esasperata. La vediamo sui social network, ad esempio, incentrati su una morale fortemente egoistica e invidiosa, con lo spiare gli altri, in un confronto continuo su chi ha più successo, ha la casa più bella, ha il vestito migliore.

Pur focalizzandoci su noi stessi e sforzandoci di dare sempre il meglio, tendiamo a sentirci inadeguati. Quali sono le cause di questa condizione?
La realtà sociale ci propone modelli basati sul raggiungimento di certi standard. Ad esempio, da bambini non si deve strillare, da ragazzi bisogna andare bene a scuola, da adulti è importante guadagnare una certa quantità di soldi per essere rispettati. Questi modelli fanno tutti capo all’individualismo, cioè ci misurano per la capacità che abbiamo di dare il massimo da soli. Anche quando lavoriamo in gruppo, lo facciamo in funzione della produzione di valore. Di fronte a modelli così omologati, ci sentiamo sempre inadeguati, perché il loro perseguimento implica la cancellazione sistematica dei sentimenti umani, ci fa sentire disumani. Qualcosa dentro di noi si oppone e fa resistenza: non vogliamo raggiungere certi standard e contemporaneamente ci sentiamo inadeguati perché non li raggiungiamo.

Nelle società occidentali c’è un diffuso senso di solitudine. Perché ci sentiamo soli? Come possiamo uscirne?
Il senso di solitudine è connaturato alla dimensione individualistica. Più cerchiamo di adeguarci a certi standard, e quindi tendere verso la perfezione impossibile, più ci sentiamo soli. La vita umana non è fatta per essere perfetta: siamo imperfetti proprio per poterci relazionare agli altri, perché con le nostre imperfezioni ci completiamo a vicenda. Se non fossimo imperfetti non saremmo socievoli. Possiamo sentirci felici solo se accettiamo che è la relazione con gli esseri umani a darci senso e completezza. Il fatto di essere competitivi ci rende soli, perché gli altri diventano nemici, rivali e ostacoli. Un’altra conseguenza dell’individualismo è il narcisismo, l’elogio smodato di sé. Per uscirne dobbiamo essere onesti e metterci in ascolto della nostra sofferenza. Se c’è della sofferenza significa che in qualche modo l’abbiamo prodotta e dobbiamo guardarla, senza vittimizzazioni né colpevolizzazioni, per capire da dove arriva. Per superare l’individualismo, abbiamo bisogno di modificare il sistema di valori emozionali che lo genera. Possiamo riuscirci da soli oppure con l’aiuto di un terapeuta.

Dalla sua analisi emerge che l’ansia è in parte connaturata agli esseri umani e in parte risultato di pressioni sociali.
L’ansia ha come base emozionale la paura di essere esclusi, dipende dal giudizio che crediamo che gli altri abbiano di noi, del continuo sentirci sotto esame. Ha origine dai modelli che ci diamo, contrari alla nostra natura. Non tutte le persone ne soffrono allo stesso modo, colpisce soprattutto le più sensibili, quelle che cercano aiuto da noi psicoterapeuti. C’è una buona parte di popolazione che non percepisce il conflitto tra i modelli esterni e la natura interna e vive senza particolari ansie, se non quelle collettive dovute a eventi come, ad esempio, la pandemia causata dal Covid-19.

Per affrontare la complessità del mondo contemporaneo lei suggerisce un approccio chiamato geopsicologia. Ce ne parla?
Geopsicologia è un termine che ho coniato io e che ho spiegato, per la prima volta, in maniera completa ne La specie malata. La geopsicologia instaura un parallelo tra la vita umana e quella del pianeta, considerando la mente alla stregua della terra: entrambe sono ecosistemi che si autoregolano. Considerati in questo contesto, i sintomi del malessere degli esseri umani diventano i segnali di qualcosa che non funziona come dovrebbe. Se una notte siamo insonni, magari è perché il giorno dopo dobbiamo fare qualcosa che non vogliamo. Il mio obiettivo terapeutico non è eliminare il sintomo, perdendo la possibilità di capirlo, non subito almeno. Lo scopo della terapia è di ascoltarlo e modificare lo squilibrio che lo ha provocato. Ad esempio, un’idea ossessiva è un tentativo della mente per arginare degli impulsi aggressivi; una fobia sociale un tentativo di sottrarsi a modelli performativi tirannici, e così via. Il sintomo in sé non è brutto né cattivo. L’eccesso moralistico di un tempo generava fantasie trasgressive e sensi di colpa mentre oggi l’eccesso individualistico genera ansie performative e depressioni catastrofiche. In entrambi i casi i sintomi regolano il sistema e impediscono di aderire agli odiati codici individualisti.