Quando, nella vita quotidiana, diciamo che un certo comportamento è razionale mentre un altro non lo è, il più delle volte intendiamo dire che il primo segue regole logiche rigorose mentre il secondo ne prescinde oppure non le rispetta. Questo atteggiamento, che in parte risente della definizione classica della razionalità, non è scorretto ma ha bisogno di essere, per così dire, aggiornato. Sviluppare per bene un ragionamento e, dunque, essere razionali, non significa produrre conclusioni perfette nel senso di «vere» ma semplicemente coerenti e non contraddittorie. Se io dico che Roma è in Uganda e quindi coloro che vi abitano sono ugandesi, compio un ragionamento formalmente perfetto ma che porta a una conclusione palesemente erronea perché fondato su una premessa non vera. Insomma, un conto è la perfezione formale e un altro è l’aderenza delle nostre premesse alla realtà. È qui che si inserisce il concetto, introdotto nel secolo scorso da Herbert Simon, di «razionalità limitata». Ciò che è in gioco non è la rigorosità del ragionamento – che un computer può esibire anche in termini più precisi di un essere umano – bensì la fondatezza e la completezza delle premesse da cui partiamo.
È facile intuire come in tutti i casi reali – prescindendo dalla matematica che procede da assiomi assunti come veri per definizione – la nostra conoscenza sullo stato delle cose è sempre e solo parziale. Quando dobbiamo decidere se compiere un viaggio in automobile oppure in treno, la nostra razionalità si esercita sui dati disponibili circa il tempo che farà, il traffico stradale prevedibile, eventuali scioperi e così via ma è del tutto evidente che nessuna delle informazioni che abbiamo è certa. Il problema di ogni decisione, nella vita di tutti i giorni così come nelle attività più diverse, consiste allora nella ottimizzazione della decisione sulla base delle conoscenze disponibili. Questo procedimento può includere criteri diversi, come la massimizzazione della probabilità di prendere la decisione giusta oppure la minimizzazione della probabilità di prendere la decisione sbagliata, e altri ancora magari ispirati alla cosiddetta «teoria dei giochi».
Ciò che va però sottolineato è il fatto che, anche nella maggior parte delle professioni, nessuno si mette a fare calcoli probabilistici quando deve prendere una decisione diagnostica, tattica o strategica. Gli stessi Decision Support Systems creati nell’ambito dell’intelligenza artificiale non forniscono, né potrebbero farlo, una soluzione decisionale perfettamente aderente alla realtà e alla sua dinamica, lasciando ampio spazio alla responsabilità umana. Ma, allora, cosa interviene quando, poniamo, un medico, di fronte a dati di laboratorio affidabili ma, ovviamente, probabilistici, prende una decisione diagnostica, oppure quando un imprenditore o uno stratega militare decidono l’azione da compiere? Per quanto abbiamo detto fin qui è evidente che costoro non possono che ricorrere a processi a-razionali al cui centro c’è sicuramente quella attitudine umana che chiamiamo intuizione ma anche la speranza, l’immaginazione, la simpatia o l’antipatia e persino la scaramanzia. A questo riguardo è però importante riconoscere la sottile differenza fra la a-razionalità e l’irrazionalità. Puntare su una soluzione sulla scorta di una intuizione, magari credendo ostinatamente sulla sua bontà in base all’esperienza passata, può voler dire introdurre un elemento non razionale ma non necessariamente irrazionale se, per «irrazionale» intendiamo un atteggiamento che non attribuisce alla ragione il primato nella ricerca della verità, come è, per portare un esempio classico, in Friedrich Nietzsche. Più semplicemente è infatti da considerarsi a-razionale qualsiasi premessa che abbia origine non dallo sforzo di osservare oggettivamente, magari scientificamente, la realtà bensì da pulsioni, sentimenti o credenze che il soggetto pone, o da cui è motivato, come «punti di partenza» della propria visione del mondo che lo circonda e quindi delle decisioni che egli deve assumere in riferimento ad esso. L’irrazionalità non è una diretta conseguenza della a-razionalità perché, a partire, per esempio, da un certo sentimento, il soggetto può sviluppare un ragionamento e prendere una decisione seguendo regole logiche perfettamente razionali. Quando la solidarietà ci induce ad aiutare una persona in difficoltà quel sentimento agisce come motivazione ma, poi, essa potrà contare su un’azione che di norma cercherà di essere efficace ed efficiente in termini razionali.
Altro sono, invece, un atteggiamento o un comportamento radicalmente irrazionali perché, in questo caso, a essere non razionali saranno tutte le fasi che vanno dall’ideazione alla realizzazione di un comportamento. Questo accade quando una setta prende le mosse dalla persuasione di essere in contatto con il demonio e istituisce pratiche di vario ordine per entrare in una relazione stabile con lui, oppure quando si aderisce a una credenza superstiziosa o quando si praticano attività estreme fini a se stesse. Naturalmente, nella definizione dell’irrazionalità, il pensiero va anche al mondo dell’arte e alla sua innegabile motivazione, dominata quasi invariabilmente da visioni della realtà che si discostano dai modelli razionalmente stabiliti. Ma occorre molta attenzione perché, in realtà, ogni arte genuina presenta sempre, assieme a momenti di a-razionalità, sviluppi successivi di altissima razionalità nel senso di adesione a regole di composizione e di uniformità stilistica senza le quali, basti pensare alla musica, non avrebbe alcun senso. Non a caso Fëdorovič Stravinskij diceva che «la musica è costruzione» e ogni costruzione, ovviamente, si nutre di regole e dunque di razionalità.
In definitiva, si può affermare che esiste un continuum che va da un comportamento duramente razionale, come la burocrazia secondo Max Weber, fino alla condotta puramente impulsiva, passando per quella che è la razionalità limitata la quale, a ben vedere, costituisce la più diffusa circostanza in cui ci veniamo a trovare durante la nostra esistenza.