Il Ticino è bello o brutto? Pensiamo al territorio, alla sua salvaguardia, ma anche al patrimonio culturale e storico, a quanto è stato distrutto e sacrificato e a tutto ciò che è stato costruito, edificato in questi ultimi cinquant’anni.
Possiamo sorvolare il piano di Magadino, per valutare il sacrificio della zona agricola, che subirà un ulteriore sfregio con il progetto di Officine FFS. Guardiamo al Piano dello Scairolo, nel Luganese, dove sono state inserite in un vicolo cieco (si va e si torna dalla stessa strada) decine di grandi magazzini che attirano migliaia di clienti. Facciamo un’escursione nella Campagna Adorna a Mendrisio, ormai abusata e adornata per lo più di capannoni, centri commerciali e obbrobri edilizi. Ci fermiamo qui, per carità politica, per non apparire demagoghi e disfattisti. «L’espansione disordinata degli insediamenti e la distruzione dei terreni coltivi sono problemi insoluti della pianificazione del territorio svizzero»: lo dice l’Ufficio federale dell’agricoltura (UFAG). E se ciò vale per la Svizzera, figuriamoci come potremmo definire lo stato del territorio ticinese, che nel confronto nazionale non fa certo una bella figura. Dunque, il Ticino è bruttino.
Seconda domanda: si poteva evitare che il territorio del Cantone fosse così maltrattato?
Domanda oziosa, con i se e con i ma non si va da nessuna parte.
C’è però un anniversario che merita di essere rievocato: la sonora bocciatura, che avviene il 20 aprile 1969 da parte del popolo ticinese, della Legge urbanistica. Una proposta che vuole introdurre un Piano direttore cantonale, disciplinare i piani regolatori comunali e, soprattutto, vietare le edificazioni sui terreni senza fognature e infrastrutture.
Avrebbe potuto, questo atto, cambiare il volto del nostro territorio? Probabilmente no, ma forse non è esagerato affermare che la Legge urbanistica ha assunto, in Ticino, il carattere di mito, di un simbolo con due facce: la volontà e la speranza di cambiamento della generazione dei giovani politici da una parte, e la realtà più conservatrice e timorosa del popolo e degli interessi particolari dall’altra. Si tratta di una legge senz’altro innovativa, pensata e promossa in primo luogo da Franco Zorzi, uno dei politici di maggior spessore del novecento ticinese. Elaborata nei dettagli nel 1967, quando in parlamento c’è un gruppo di giovani che rappresenta l’aria del tempo, lo spirito del Sessantotto. Sono gli anni in cui, dalla Francia all’Italia, si discute di pianificazione economica, ma anche territoriale o urbanistica. E sono gli anni del boom economico, quella che allora si definiva «alta congiuntura», marcato tasso di sviluppo, lavoro per tutti, buste paga che si gonfiano, forte sviluppo demografico ed edilizio.
«In forza anche del fenomeno della speculazione fondiario-immobiliare – sintetizza l’economista Angelo Rossi – questo aumento concentrato della domanda di superfici determinò un notevole rincaro dei prezzi dei terreni e degli affitti per abitazioni, come pure dei prezzi per le superfici ad uso industriale o commerciale. Il boom nelle costruzioni private provocò inoltre una forte espansione degli investimenti pubblici nelle infrastrutture, in particolare negli investimenti per la rete stradale» (1).
Le transazioni immobiliari nel 1968 registrano un incremento del 48%, nel 1969 del 41%. Da sud arrivano i capitali in fuga dall’Italia che fanno la fortuna della piazza finanziaria, da nord scendono tedeschi e confederati a ritemprarsi nella Sonnenstube. Un Cantone effervescente con giovani dinamici che vogliono imprimere una svolta alla politica. Durissimo il giudizio, allora, dello scrittore Plinio Martini: «anche se non tutti sono disonesti, ma solo impreparati... il Canton Ticino, chiuso al Nord dalle Alpi e a sud dal Confine è come una forma di formaggio che non prende aria e fa i vermi; i vermi sono gli avvocati, i consiglieri, i galoppini dei consiglieri, i galoppini dei galoppini e dietro i capomafia...».
In questo contesto si discute la legge proposta dal Consiglio di Stato, ma arricchita dalla Commissione parlamentare. Il dibattito in Gran Consiglio, alla fine del 1968, si svolge sull’arco di 19 giorni, i verbali consumano 400 pagine.
Una trasmissione televisiva (2) del novembre del 68 dà la parola ai protagonisti del dibattito. Pietro Martinelli, ingegnere e giovane socialista del gruppo di Politica Nuova, la rivista della sinistra del partito, denuncia la speculazione immobiliare e si preoccupa delle «nostre massaie», confrontate con città poco accoglienti e con monopoli immobiliari e affitti esagerati: «Molti nostri Comuni si trovano di fronte a impegni che non riescono più a risolvere, dalle strade alle fognature, dal piano regolatore alle scuole e agli asili. Questi impegni finanziari si accavallano uno sopra l’altro. (…) Il disservizio dei servizi urbani: vediamo le nostre massaie quando devono andare a far la spesa o portare il bambino a scuola, andare in farmacia, devono spendere una quantità di tempo inutile perché l’organizzazione delle nostre città non è funzionale».
Fiorenzo Perucchi, deputato del Partito Conservatore democratico, nega che venga messa in discussione la proprietà privata: «Il progetto di legge urbanistica che sta per essere esaminato dal Gran Consiglio si muove nell’ambito dell’attuale concezione della proprietà privata e non può essere diversamente, perché tutte le leggi che si emanano nel nostro cantone, evidentemente, devono essere progettate sulla base dell’attuale ordinamento costituzionale. Il pensiero moderno ha scoperto che la proprietà fondiaria non può essere più concepita come una proprietà assoluta e quindi a questa proprietà fondiaria devono essere posti dei limiti direi di carattere sociale. Il diritto di proprietà deve pertanto subire delle necessarie limitazioni».
Diego Scacchi, giovane liberale radicale e presidente della Commissione, esprime il timore che la legge non sia capita: «Posso definire questa difficoltà di ordine psicologico nella generale resistenza alla novità. La legge urbanistica è innovatrice, il che davanti alla popolazione ha come conseguenza un certo senso di paura, di sgomento o di ritrosia e di resistenza. A me sembra che questo sentimento non sia assolutamente giustificato, non dobbiamo nasconderci che esiste e che può essere una seria difficolta per l’approvazione della legge e per la sua applicazione».
Giancarlo Staffieri, portavoce del partito agrario, è decisamente contrario: «Il rapporto è caratterizzato da astratte posizioni dottrinarie che a mio modo di vedere vanno totalmente respinte e che attingono ad autori tutti collocati nell’area della contestazione globale del sistema e della società dei consumi o comunque che sono negatori di valori spirituali tradizionali, ma pur sempre attuali perché democratici e posti a fondamento del nostro ordine giuridico e dello Stato stesso».
Il rapporto inizia con un preambolo, o «cappello ideologico», che fa molto discutere. Silvano Toppi rivela che c’è anche un riferimento a un pensatore radicale molto in voga nel sessantotto, Herbert Marcuse: «Ho tra le mani il ciclostile, il progetto di rapporto, steso da Martinelli che lui stesso mi aveva allora passato (porta la data, a matita, con tanto di firma, del 4.6.68). In quel progetto di rapporto, in due sotto-capitoli, il nome di Marcuse appare due volte, con ampie citazioni dei suoi scritti (sulla capacità della società attuale di contenere il mutamento sociale; sulla pianificazione democratica divenuta un’alternativa storica)1». Il nome di Marcuse sparisce dal rapporto, ma alcuni concetti rimangono: «la prevalenza degli interessi privati, ispirati dal desiderio di ricchezza e di potere personale, sono dunque all’origine dell’attuale stato di cose… la pianificazione democratica diventa un’alternativa storica determinante per la sopravvivenza dell’umanità, per lo sviluppo di un’etica che superi il divario con il progresso tecnico». Il preambolo era dunque ideologicamente pregnante. Gli oppositori non mancano di sottolineare che «sembra scritto dal Cremlino». Ma anche il Papa, Paolo VI, ricorda Toppi, non è da meno: «Il diritto di proprietà non si può esercitare a detrimento dell’utilità comune, c’è un doloroso conflitto da superare tra diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali».
Come dicono molti protagonisti del dibattito di allora, il cappello ideologico è solo un pretesto per seppellire la legge. Le novità sono il Piano direttore cantonale e i Piani regolatori comunali. Il punto più sensibile è l’articolo 70, che vieta di costruire nelle zone dove non ci sono opere di urbanizzazione come strade, acquedotti e fognature. Gli ambienti economici, le società immobiliari e tutti i proprietari di terreni vedono in questa misura una limitazione della libertà e della proprietà privata.
Il Gran Consiglio approva la legge a schiacciante maggioranza (51 sì e 3 no) il 18 dicembre del 1968, ma gli oppositori lanciano il referendum che nell’aprile del 1969 spazza via la riforma con un pesante risultato: 68,3% di no, le donne non votavano ancora!
«I ticinesi, – commenta poco dopo Pietro Martinelli – per i quali fino ad allora ogni superficie priva di bosco era potenzialmente edificabile, preferirono mantenere un disordine dal quale alcuni avevano tratto grandi benefici e molti altri speravano di trarne in futuro, a un ordine dal quale temevano di restare esclusi». Franco Masoni, avvocato, allora deputato in Gran Consiglio, annota: «la legge non considerava in primo luogo che il problema estetico paesaggistico è un problema culturale ed esige una maturazione culturale e non si risolve con delle imposizioni e in secondo luogo che invece di coinvolgere i comuni, imponeva loro una pianificazione che i comuni non erano ancora in grado di accettare».
Sarà poi la Confederazione a imporre le regole basilari della pianificazione del territorio, fin dagli anni Settanta. «La Confederazione stabilisce i principi della pianificazione territoriale. – afferma l’art. 75 della Costituzione elvetica – Questa spetta ai Cantoni ed è volta ad un’appropriata e parsimoniosa utilizzazione del suolo e a un ordinato insediamento del territorio».
Il Piano Direttore cantonale è considerato il cardine della politica territoriale svizzera, ma in Ticino arriva solo nel 1989; a venti anni dalla proposta contenuta nella legge urbanistica. Nel nostro Paese nella pianificazione del territorio non c’è gerarchia. La legge federale, entrata in vigore nel maggio del 2014, prescrive di ridurre le zone edificabili contenendo la frammentazione e densificando le costruzioni, è anche molto severa, ma sono i Cantoni e i Comuni a dover applicarne i principi, in un regime di «reciproca considerazione».
I Comuni ticinesi sono ora confrontati con gli imperativi della legge federale che impone, fra l’altro, di dezonare (trasformare terreni edificabili in zone verdi) quando c’è un eccesso di spazi costruibili. Una bella gatta da pelare, che fa ricordare la messa in discussione della proprietà privata nel 1969. Faranno i loro compiti i nostri Comuni? Saranno in grado di imporre ai privati la rinuncia all’edificabilità? Staremo a vedere.
Note
1. «Archivio storico ticinese», n. 164.
2. Il progetto di legge urbanistica cantonale, LanostraStoria.ch