Fra le cartoline delle nostre località turistiche è impossibile non trovarne almeno una con una pianta molto speciale. È la palma, la «nostra» palma che, in tedesco, qualcuno ha chiamato Tessiner Palme ma che di ticinese non ha proprio nulla, al pari di camelie, magnolie e azalee. È, però, molto più popolare di queste ultime ed è divenuta una sorta di icona nel paesaggio idealizzato del nostro territorio. La si incontra sul lungolago, nei parchi delle nostre città, nei giardini di molte case. Ai nordici che, nel loro «Drang nach Süden», lasciano, sbucando da qualche traforo alpino, le grigie piovose nebbie, questa palma deve davvero evocare sensazioni forti, solari, esotiche, tropicali.
Goethe, durante il suo Grand Tour, racconta di limoni e mirti che, loro sì, vogliono estati calde e inverni miti. Non necessariamente la nostra palma che sopporta rigori invernali notevoli e, magari con qualche accorgimento, si lascia tenere tranquillamente all’aperto fino in Germania, in Belgio, in Olanda e in Inghilterra. Fra i miei ricordi di studente in viaggio fra Lugano e Zurigo, c’è una palma, un notevole esemplare, in un giardino di Erstfeld, ben visibile dal treno: una palma urana. Fuori posto? Forse, ma non tanto più delle nostre palme, decisamente estranee al paesaggio naturale, più ancora delle pur esotiche camelie e magnolie.
Sulla palma, gli animi si dividono: per alcuni decisamente una nota stonata da eliminare, per altri, un decoro ormai ben integrato della nostra cultura paesaggistica. Da dove provenga e da quanto tempo sia fra noi, non è facile, come spesso capita con le piante, stabilire con esattezza. Di certo, le sue origini non sono mediterranee, come per alloro e ulivo, esotici pure loro ma inseriti in modo più armonioso nel nostro ambiente.
C’è d’altronde per davvero una palma europea, la più settentrionale di tutte, diffusa nell’area mediterranea: è la palma nana, Chamaerops humilis, non molto alta e dal portamento cespuglioso, diffusa da noi come ornamentale. Ma la nostra palma viene da molto più lontano, ha origini asiatiche, Cina, Giappone, Myanmar, forse anche India. Nelle sue terre d’origine è conosciuta come Palma della canapa perché, come da questa, si ottengono dalle foglie fibre tessili molto resistenti per farne corde, sacchi, stuoie, cappelli e scope.
Sulla sua apparizione in Europa s’è perfino scomodata la figura di San Carlo Borromeo ma è molto più sicuro che la palma arrivò verso la metà dell’Ottocento, ad opera di botanici e viaggiatori in Oriente. Fra questi, lo scozzese Robert Fortune, giardiniere, botanico appassionato e «cacciatore di piante» per la Royal Horticultural Society e per la British East India Company che lo aveva ingaggiato per trafugare piante di tè verso l’India, dalla Cina. E qui trovò la «palma cinese» che portò nel 1849 a Kew Gardens, il celebre giardino botanico di Londra, da cui rapidamente si diffuse come pianta ornamentale nel resto d’Europa ed è nota anche come Palma di Fortune, Trachycarpus fortunei.
Come ogni palma, oltre 2800 specie in tutto il mondo, appartiene alla famiglia Arecaceae, piante con portamento arboreo ma, in pratica, delle «erbe»: il loro «tronco» non è ramificato, è detto «stipite», al taglio non rivela i familiari «anelli» d’accrescimento, crescono in altezza ma pochissimo in spessore e perciò non le si possono chiamare «alberi». Trachycarpus fortunei è una palma di tutto rispetto che s’allunga fino a trenta centimetri l’anno, superando facilmente i dieci metri d’altezza. Le foglie, a forma di ventaglio larghe quasi un metro e con un lungo picciolo, lasciano sul fusto, una volta secche, dei tipici resti sfilacciati.
A maggio-giugno, sulla sommità compaiono le vistose infiorescenze gialle, maschili e femminili solitamente su piante diverse. Da quelle femminili si sviluppano piccoli frutti, drupe raccolte a grappoli, quasi nere a maturazione. È fra le palme che meglio sopportano le basse temperature, con minime fino a –15° C, in certi casi perfino a meno venti. Pianta robusta e che si contenta di poco, riesce a riprodursi senza essere seminata dall’uomo. È dunque una cosiddetta «neofíta», insieme a non poche altre piante introdotte dall’uomo dopo il 1492.
La sua vitalità è ben visibile a tutti: sotto le palme, dai semi caduti per terra, spuntano ogni anno tantissime piantine. Da qualche anno, Trachycarpus è uscita dai giardini: i semi, trasportati dagli uccelli, sono riusciti a penetrare nei nostri boschi di bassa quota, come al Monte Caslano, al Sentiero di Gandria, alla Foce della Maggia, e questa crescente diffusione, favorita anche dall’aumento di temperatura, l’ha resa una vera e propria pianta invasiva, iscritta nella Lista nera.
I problemi che può causare ai nostri boschi non sono pochi e vanno dalla concorrenza con le specie locali, allo squilibrio dell’ecologia forestale, alla stabilità dei pendii. Per analizzare in modo scientifico l’impatto di Trachycarpus sul nostro ambiente naturale è stato lanciato un progetto pilota. L’Ufficio federale dell’ambiente (Ufam), nell’ambito della seconda fase dei progetti sull’adattamento ai mutamenti climatici ha scelto e approvato cinquanta nuovi progetti, fra cui uno dedicato alla Palma di Fortune. Il progetto, condotto dal Campus di ricerca di Cadenazzo del WSL, Istituto federale di ricerca sulla foresta, la neve e il paesaggio, congiuntamente con la Sezione forestale e l’Ufficio natura e paesaggio, è già in corso e durerà fino alla fine del 2021. Fra gli obiettivi, il rilievo dello stato attuale della distribuzione della palma e la valutazione degli sviluppi futuri, lo studio delle conseguenze ecologiche, particolarmente nei boschi con elevato interesse naturalistico, l’analisi del sistema radicale anche in funzione del rischio di pericoli naturali e l’ottimizzazione delle tecniche di lotta e di eradicazione.
Nell’attesa dei risultati di questo innovativo e interessante progetto, basi indispensabili per lo sviluppo di interventi mirati nel contenimento dell’espansione della Palma di Fortune, si può registrare un primo piccolo successo. La sua vendita non è ancora vietata per legge ma almeno nel cartellino informativo non dovremmo più vedere «Palma ticinese».