Il professor Daniel Lord Smail

La neurostoria per ripartire dall’Africa

Ricerca – Decenni di indagini sul cervello ci permettono di studiare la storia umana in una prospettiva diversa
/ 09.07.2018
di Lorenzo De Carli

Nonostante sia spesso oggetto di critica, la psicologia evoluzionistica, che studia le nostre attuali reazioni emotive o le nostre scelte ipotizzando quale forma di adattamento esse fossero nel Pleistocene, ha avuto il merito di attirare l’attenzione su un fatto tanto imbarazzante quanto ricco di conseguenze per la nostra vita individuale e per le nostre interazioni sociali: abbiamo la spiccata inclinazione non solo a cercare rapporti di causa-effetto in tutte le manifestazioni della natura, ma tendiamo anche ad attribuire una solida intenzionalità sia alle azioni individuali, sia alle scelte collettive. Troppo a disagio di fronte alla possibilità che tanti eventi naturali accadano senza alcun disegno preordinato, sopraffatti da un sentimento d’insensatezza al sospetto che le persone possano agire anch’esse per caso, cerchiamo «intenzionalità» in tutto: non solo nelle azioni umane, ma anche negli eventi naturali perché ipotizzare la presenza di un soggetto agente dietro ogni manifestazione della natura è stato un adattamento particolarmente efficace nella maggior parte della nostra storia evolutiva, evitandoci di essere predati.

Lo psicologo cognitivo inglese Nicholas Humphrey ha portato questo tipo di considerazioni fin dentro il funzionamento stesso della nostra mente e, studiando la coscienza in un’ottica darwiniana, è giunto a sostenere che la nostra stessa intenzionalità è solo un’illusione cognitiva selezionata dall’evoluzione.

Ma che cosa succede quando uno storico di professione mette in dubbio il primato dell’intenzionalità? Che ne è di tutti quei libri di storia che ci spiegano le vicende umane attraverso i piani e le azioni dei grandi condottieri?

Docente all’Università di Harvard, Daniel Lord Smail, scrivendo Storia profonda, ha provato a mettersi in questa prospettiva, indagando il rapporto tra il cervello umano e l’origine della storia. Si tratta di un programma di ricerca che gli sta assegnando una posizione controversa nella comunità degli storici, i quali gli rimproverano d’introdurre nel dibattito elementi di ricerche pertinenti con la biologia evoluzionistica o le neuroscienze, ritenuti ancora inadeguati a far parte del corredo disciplinare degli studiosi di storia. D’altra parte, Lord Smail si propone un obbiettivo chiaro: scrivere una storia precedente quella delle epoche che ci hanno lasciato «documenti», estendendo il concetto di «documento» non solo a tutte le «tracce» lasciate dalla nostra presenza sul pianeta, ma anche al codice che costituisce il nostro DNA. 

Secondo Lord Smail, ponendo l’inizio della «Storia» a circa 3500 anni fa, sebbene tragga credito dal fatto che vere e proprie «fonti» documentarie sono state rese disponibili solo con l’adozione della scrittura, in realtà nasconde il fatto che questa periodizzazione prese forma nell’Ottocento, quando «il sacro venne abilmente tradotto in chiave secolare: il Giardino dell’Eden mutò nei campi irrigati della Mesopotamia e la creazione dell’uomo fu riconfigurata come la nascita della civiltà». A giudizio di Lord Smail, sarebbe ormai tempo che anche gli storici riconoscessero l’Africa come vera nostra madrepatria perché la loro convinzione che debba esserci un vero e proprio punto d’inizio della «Storia» – la scrittura per alcuni, il fatto di essere consapevoli agenti delle proprie vicende per altri – è un retaggio della convinzione secondo la quale il Diluvio universale produsse una sorta di reset, dal quale prese avvio la storia vera e proprio del genere umano.

Criticata una periodizzazione che divide la Preistoria dalla Storia, Lord Smail introduce la nozione di «neurostoria»: «una prospettiva neurostorica sulla storia umana è costituita intorno alla plasticità delle sinapsi che legano un’emozione universale, come il disgusto, a un oggetto particolare o a uno stimolo, una plasticità che permette alla cultura di radicarsi nella fisiologia». Secondo lo storico americano, dunque, è tempo di prestare attenzione alla nostra «continuità emotiva» nella storia, a tutta quella serie di neurotrasmettitori che modulano universalmente le nostre emozioni e che, nel corso del tempo, hanno orientato le nostre scelte. Assumendo la prospettiva neurostorica, Lord Smail giunge a sostenere che dobbiamo considerare la storia anche in quanto storia delle pratiche di «teletropia», vale a dire storia di quelle azioni deliberatamente compiute per indurre specifiche emozioni causate dal rilascio di altrettanto specifici neurotrasmettitori. Si tratta di un programma di ricerca che non mancherà di rendere perplessi molti storici di professione perché, se pure potrebbe essere accettabile l’ipotesi che le «pratiche culturali umane alterano o influenzano la chimica corpo-cervello», disporre di «fonti» incontrovertibili per documentare queste pratiche è assai arduo.

Tra gli esempi che porta Lord Smail spiccano le pratiche di gestione del potere. Le gerarchie di dominanza sono profondamente radicate nella nostra specie e le condividiamo con altri primati: «gli ormoni dello stress che plasmano la società dei babbuini sono presenti anche nei corpi umani e hanno effetti simili, anche se non identici». Secondo Lord Smail, le società postlitiche videro un aumento della gamma e della densità dei mezzi e dei meccanismi che producono ormoni legati allo stress nei corpi dei subordinati. In un contesto nuovo, dato dall’invenzione dell’agro-pastorizia, la quale produsse, sì, società più complesse, ma creò povertà e incertezza, le élite religioso-politiche si costituirono cooptando quei soggetti che erano in grado coi loro gesti e con le loro parole di produrre, alternativamente, stati di stress attraverso l’incremento di neurotrasmettitori come il cortisolo, oppure di benessere stimolando la produzione di ossitocina o di dopamina con musica, balli e riti religiosi.

Non spetta allo storico indicare programmi per il futuro; tuttavia Lord Smail non perde mai occasione di sottolineare la natura sociale dei comportamenti che influiscono sulla chimica corpo-cervello. Proprio la loro natura sociale permette di sostenere che la chimica delle emozioni può essere orientata dalle nostre pratiche sociali; possiamo per esempio scegliere di diffondere sentimenti di paura o sentimenti di fiducia, aprendoci o chiudendoci a comunità sociali diverse dalla nostra.