I modelli climatici prevedono che, entro il 2100, il nostro pianeta registrerà un incremento della temperatura compreso tra i 3 e i 4 gradi al di sopra della media preindustriale. Chi è nato in questo decennio sarà testimone di mutamenti climatici radicali e irreversibili, che avranno effetti profondi e duraturi sulle società, alcune delle quali, per motivi ecologici, sicuramente collasseranno – come ha già documentato Jared Diamond per alcune società del recente passato.
C’è chi prova a disinnescare l’allarme prodotto dalle previsioni climatiche, sostenendo che, in passato, il nostro pianeta aveva già conosciuto epoche con temperature anche superiori a quelle previste per il 2100. È vero, ma noi non c’eravamo. Durante il primo Eocene, per esempio, la temperatura media era attorno ai 21 gradi: i poli erano privi di ghiaccio, gli oceani tropicali raggiungevano temperature di 35 gradi, e nell’Artico c’erano palme e coccodrilli. Ci fu anche un periodo, all’incirca 250 milioni di anni fa, tra il Permiano e il Triassico, in cui la temperatura media della Terra si avvicinò a 32° C per milioni di anni. Ma noi non c’eravamo.
La nostra specie si è evoluta in un intervallo geologico iniziato nel Pleistocene e tutt’ora in corso caratterizzato dalla presenza costante di ghiaccio ai poli e sulle vette delle montagne più alte. Migrati in piccoli gruppi dal continente africano circa 65-75’000 anni fa, talvolta i ghiacciai hanno ostacolato la nostra diffusione, altre volte l’hanno favorita – per esempio abbassando il livello dei mari quanto basta da permetterci di raggiungere isole e continenti altrimenti inaccessibili con imbarcazioni primitive. Nel corso della nostra diffusione, abbiamo incontrato altre forme umane che avevano lasciato l’Africa prima di noi, i Neanderthal in Europa e in Medio Oriente, i Denisova in Asia: due specie scomparse, dalle quali abbiamo ereditato geni rivelatisi utili in alcune circostanze. Dal punto di vista dell’evoluzione è da poco che siamo l’unica specie Homo sul pianeta; ciò che dovrebbe indurci a tenere in seria considerazione la possibilità della nostra estinzione.
I discorsi sull’oscillazione delle temperature del pianeta nel passato recente e remoto tendono a omettere un fatto che caratterizza la condizione attuale del nostro pianeta, vale a dire che, presto, saremo in otto miliardi, con la metà della popolazione che vive in soli sette Paesi: Cina, India, Stati Uniti, Indonesia, Pakistan, Nigeria e Brasile. Siccome molte di queste persone vivono in zone che furono, sì, propizie allo sviluppo della nostra specie quando il clima ci era favorevole, circa 2 miliardi di persone dovranno migrare per allontanarsi da luoghi resi inabitabili con un incremento della temperatura media di 4 gradi. Per costoro, così come sempre fu per la nostra specie, migrare sarà la soluzione.
Un mondo più caldo di 4 gradi centigradi non sarà completamente inabitabile, ma avrà caratteristiche tali da costringere il 25% del genere umano a migrare. La fascia equatoriale, per esempio, sarà inabitabile quasi tutto l’anno a causa dello stress di calore prodotto dall’elevata umidità. Anche le fasce a medie latitudini a sud – dove, per esempio, si trova l’Australia – saranno inabitabili per alcuni periodi dell’anno. A nord, le popolazioni asiatiche si troveranno in estrema difficoltà perché due terzi dei ghiacciai che alimentano i fiumi dell’Asia saranno scomparsi. Nel frattempo, i deserti sahariani si saranno espansi nell’Europa meridionale e centrale. Ciò significa che, quando sarà in pensione chi è nato in questi anni, la fascia di abitabilità del mondo a nord comprenderà luoghi come il Canada, la Siberia, la Scandinavia e l’Alaska, mentre a sud le pochissime zone abitabili saranno la Nuova Zelanda, la Tasmania, l’Antartide occidentale e la Patagonia. La cartina del nostro pianeta con una temperatura media di soli 4 gradi in più rispetto all’epoca preindustriale fa pensare a quei film distopici dove l’umanità, a causa di cataclismi ambientali, è costretta a vivere solo in zone molto circoscritte.
Il nesso tra clima e nuove migrazioni è ormai incontrovertibile. «La maggior parte della popolazione mondiale si concentra intorno al 27° parallelo, che tradizionalmente è la latitudine con il clima più favorevole e la terra più fertile, ma la situazione sta cambiando. Adattarsi al clima significherà inseguire la nostra nicchia via via che si sposta verso nord» – scrive Gaia Vince, l’autrice del recente Il secolo nomade. Il problema è che se le nicchie climatiche si stanno spostando a nord alla velocità di 115 centimetri al giorno, animali e piante hanno la libertà di migrare, ma la maggior parte del genere umano no – costretta com’è dentro il perimetro di una recente invenzione: quella dei confini nazionali.
Per i rifugiati climatici del futuro, molti dei quali saranno interni alle loro stesse nazioni, come gli americani e gli australiani, occorre pensare a nuovi quartieri e a nuove città in grado di ospitarli. Nelle pagine de Il secolo nomade, Gaia Vince descrive i nuovi quartieri che non dovranno più essere i «quartieri dormitorio» che hanno caratterizzato l’espansione delle città europee di fine secolo, ma quartieri vitali, adatti sia alla produzione e al commercio, così come allo svago e al riposo. Menziona alcuni esempi spagnoli e olandesi, soffermandosi anche sull’architettura di case progettate per nuovi migranti che si possono sviluppare modularmente in funzione dell’emergere di nuove esigenze abitative e associative. Questi nuovi quartieri saranno ricchi di vita perché non esclusivamente dedicati al riposo e, soprattutto, densamente abitati perché una popolazione mondiale che potrebbe aver raggiunto il picco di 10,3 miliardi sarà costretta a vivere in fasce più ridotte rispetto alla situazione odierna.
Ma, spingendo lo sguardo più a nord, Gaia Vince descrive le nuove città in Alaska, in Groenlandia, in Scandinavia, in Siberia: città resilienti, adatte agli abitanti dell’Antropocene, che conosceranno grandi cambiamenti anche nelle abitudini alimentari, quando la carne e i latticini saranno ridotti perché non ci sarà più disponibilità di terreni agricoli.
Per l’ampio spettro delle questioni affrontate e per la qualità delle soluzioni pratiche suggerite per far fronte ai problemi, Il secolo nomade si presenta come una sorta di manuale a uso delle amministrazioni cittadine, tanto che il sottotitolo recita: «Come sopravvivere al disastro climatico». Ma alla profonda conoscenza della letteratura scientifica che dimostra Gaia Vince fa da contrappeso un po’ d’ingenuità politica, che la incoraggia a immaginare la costituzione di organismi politici internazionali in grado di pianificare le migrazioni di massa che verranno: «La questione è se riusciremo a gestire la transazione preparandoci e pianificando in anticipo o se aspetteremo che la gente muoia di fame ed esplodano conflitti: una scelta inconcepibile che metterebbe in pericolo tutti».
Allo stato attuale delle cose, che vede ovunque emergere una politica che si rifiuta di vedere quanto strette siano le relazioni tra le problematiche locali e i problemi globali, ci sarebbe da pensare che epidemie, fame e guerra, ancora una volta, agiranno come una livella; in alternativa, dal momento che il cambiamento climatico in corso è inarrestabile, l’auspicio di Gaia Vince è che già ora gli attori politici cambino la «narrativa sull’immigrazione», mettendo l’accento sul meglio che ha caratterizzato la nostra specie: la capacità di adattamento grazie all’eterogeneità delle culture.