Come si forma e di che cosa è composto il petrolio?

Il petrolio è un prodotto naturale formatosi nelle viscere della terra tramite trasformazioni occorse in decine di milioni di anni. In parole semplici, è un mix di sostanze derivate dalla decomposizione di resti animali e vegetali, sottoposti nel tempo a temperature e pressioni molto alte. Organismi defunti giacciono a terra e vengono naturalmente sepolti dalle maree, dalle tempeste, dalle esondazioni dei fiumi. Secoli dopo secoli si decompongono e scendono lentamente verso il centro della terra a causa dei movimenti tellurici e degli spostamenti di masse al di sotto della superficie. Man mano che scendono, questi vengono sottoposti a pressioni e temperature molto alte che ne trasformano ulteriormente le caratteristiche fisiche e chimiche, fino a ridurli alla sostanza primigenia cioè molecole di carbonio e idrogeno, esattamente gli stessi composti che sono alla base della vita di ogni essere vivente.

Il cosiddetto «greggio» (crude oil), ossia il petrolio non raffinato che viene estratto dai giacimenti, è il risultato della decomposizione di materiali organici, prevalentemente alghe, che si sono accumulati fra 180 e 85 milioni di anni or sono. Anche quello rinvenuto sulla terraferma deriva da decomposizione di organismi prevalentemente acquatici: si trova in luoghi dove un tempo c’erano ambienti marini e salmastri.

Il greggio non è una massa univoca, bensì è una miscela complessa di diversi idrocarburi presenti in percentuale molto variabile. I componenti vengono distinti in base al loro peso e raggruppati in tre grandi categorie: i componenti leggeri, medi e pesanti (Fonte ISPRA).

I componenti leggeri rappresentano il 95 per cento della frazione solubile del petrolio e sono costituiti da idrocarburi alifatici (sono alcani e ciclo alcani) che hanno una bassa solubilità in acqua (pochi mg/l) e da idrocarburi mono-aromatici (benzene, toluene e xylene) che hanno una solubilità più elevata rispetto agli alifatici. Sono caratterizzati da una rapida e completa evaporazione (generalmente entro un giorno) e da un punto di ebollizione che arriva al massimo a 150 °C; contengono fino a un massimo di 10 atomi di carbonio.

I componenti medi sono idrocarburi alifatici contenenti da 11 a 22 atomi di carbonio (alcani facilmente biodegradabili, la cui concentrazione nel tempo è una misura della degradazione del petrolio sversato), di-aromatici (naftalene) e poliaromatici (fenantrene, antracene, eccetera). Sono caratterizzati da bassa velocità di evaporazione che arriva fino a diversi giorni (alcuni residui non evaporano a temperatura ambiente); bassa solubilità in acqua (pochi mg/l); punto di ebollizione compreso fra 150 e 400 °C.

I componenti pesanti sono idrocarburi contenenti 23 o più atomi di carbonio oltre a cere, asfalteni, e composti polari. Sono caratterizzati da persistenza a lungo termine nei sedimenti sottoforma di grumi di catrame o pavimenti di asfalto; minima solubilità; minima perdita per evaporazione. Sono i composti più persistenti e sono caratterizzati da bassa velocità di degradazione.  


La lunga onda delle maree nere

Ecodisastri - È possibile calcolare sulla distanza il danno ambientale degli sversamenti petroliferi nei nostri mari e oceani?
/ 28.02.2022
di Sabrina Belloni

L’ultima emergenza ambientale risale al mese scorso: il 15 gennaio 2022 uno sversamento di petrolio, di oltre 11’500 barili di greggio, ha inquinato le acque e le coste delle riserve marine di Ancón e Punta Guaneras (v. articolo di Fredi Sergent su «Azione» del 21 febbraio 2022). Ma è solo l’ultimo di una lunga serie, tra i più gravi l’elenco ne annovera una trentina avvenuti negli ultimi vent’anni. Tra i luoghi contaminati, Mauritius (agosto 2021), le aree marine a ridosso di Santa Barbara (Usa, 2015); Tauranga (Nuova Zelanda, 2011); 180 km da Aberdeen (Scozia, 2011); al largo di Mumbai (India, 2010); Porto mercantile di Dalian (Cina, 2010); al largo di Singapore (Malaysia, 2010); Golfo del Messico (Louisiana, 2010), Great Keppel Island (Australia, 2010). E l’elenco potrebbe continuare ancora per molte righe, senza risparmiare nessun continente, nessun mare, finanche alcuni fiumi sono stati negli ultimi anni inquinati. Ma quali segni hanno lasciato nell’ambiente questi disastri?

Che cosa succede dopo la notizia, dopo il clamore mediatico che a un certo punto si spegne? Sono quantificabili i danni sul lungo termine? In verità non è così semplice da indagare, ma ci si può fare un’idea cercando di capire quello che accade fisicamente almeno nei momenti iniziali, quando si verificano simili emergenze ambientali.

Considerate le specifiche chimiche del petrolio (vedi articolo correlato), per attuare un’efficace attività di mitigazione dei danni che si verificano in seguito a uno sversamento di questa sostanza è necessario agire in fretta e con competenza e conoscere al più presto possibile l’esatta composizione del materiale disperso nell’ambiente (aria / acqua). Per fare questo è imprescindibile la più ampia collaborazione con i responsabili degli sversamenti.

I processi di trasformazione del greggio disperso (il cosiddetto weathering) sono inizialmente molto rapidi se esso è esposto all’azione dell’acqua, dell’ossigeno, della radiazione solare, dei micro-organismi, e rallentano quando il composto raggiunge uno stato di equilibrio con le condizioni ambientali. L’impatto visivo di una marea nera è sicuramente molto forte e impressionante; ciononostante, svia l’attenzione da altri processi fisico-chimici che si verificano nell’aria e nella colonna d’acqua, che non sono solamente quelli immediatamente sovra o sottostanti la chiazza galleggiante, bensì aree a decine di chilometri di distanza, raggiunte da materiali inquinanti trasportati dai venti, dalle turbolenze, dalle correnti marine e dalle maree.

I componenti del greggio che non evaporano nell’atmosfera e che si disperdono nell’acqua, inizialmente tendono a galleggiare. La chiazza può rimanere coesa o disgregarsi per l’effetto dei venti, dei moti ondosi e dei composti chimici disperdenti appositamente immessi sulla superficie del mare da parte di professionisti specializzati. La coltre galleggiante soffoca i primi anelli della catena alimentare marina, soprattutto fitoplancton e alghe (che necessitano del processo di fotosintesi per sopravvivere), ma anche zooplancton e le larve dei pesci, cioè quegli elementi da cui dipendono fauna ittica e creature marine più complesse nelle proprie funzioni alimentari e riproduttive.

Una delle conseguenze più documentate e note è che la massa galleggiante (bituminosa) ricopre gli animali con i quali viene in contatto, sia che risalgano per respirare (mammiferi e rettili), sia che si tuffino in mare per pescare o che si posino sulla superficie (gabbiani, pellicani, eccetera), causando perdita di idrodinamicità, perdita di calore corporeo e limitandone i movimenti. Sembra inverosimile ma, per quanto macabro, questo fenomeno produce danni limitati e sostanzialmente trascurabili. Durante la fase di galleggiamento, infatti, il greggio rilascia nell’atmosfera soprattutto i componenti volatili, alcuni dei quali estremamente tossici e cancerogeni; ciò che galleggia è un’emulsione di acqua marina, aria, composti bituminosi e olio, simile a una mousse.

Meno noto è quanto avviene nell’aria e sott’acqua. Alcuni componenti si dissolvono, si ossidano, si trasformano in sostanze completamente diverse. Molto lentamente esse precipitano verso il fondale, influenzate da vari fattori, quali la temperatura e la composizione dell’acqua, il moto ondoso, le correnti marine. La sedimentazione sui fondali avviene più velocemente ove la profondità è minore.

La mousse galleggiante viene aggredita con due principali metodi: l’incendio di aree circoscritte – da cui consegue un inevitabile inquinamento aereo e rilascio di anidride carbonica e composti cancerogeni in atmosfera – e lo spargimento di solventi, detergenti e surfattanti, con lo scopo di modificarne la composizione e facilitarne il dissolvimento. Lo scopo non è quello di asportare la mousse (con barriere di contenimento e materiali assorbenti) e di ritrattarla in ambienti controllati, bensì di renderla meno visibile e trasformarla in piccoli elementi che si disperdono. Maggiore è l’ampiezza della colonna d’acqua sottostante, maggiore è la possibilità che tali inquinanti si lascino trasportare nella massa oceanica, raggiungendo aree lontanissime dall’origine.

Contemporaneamente inizia il processo di bio-sedimentazione. Il plancton e altri organismi filtratori ingeriscono dette sostanze e le metabolizzano. Risalendo nella catena alimentare esse determinano squilibri di varia natura, fra cui la nascita di embrioni deformati, l’infertilità, una maggiore sensibilità a mutamenti ambientali aggiuntivi. Ma determina altresì un processo di adattamento, di selezione e di resilienza.

L’ecosistema marino è molto complesso e soggiace a naturali fluttuazioni nella composizione delle proprie specie, sia in termini quantitativi sia qualitativi (varietà e distribuzione). Le conseguenze a lungo termine degli sversamenti che periodicamente si verificano non sono invece determinabili, essendo impossibile quantificarne l’impatto sui processi riproduttivi, sulle specie colpite, sull’ampiezza delle aree in cui i diversi composti verranno dispersi.