L’ultima emergenza ambientale risale al mese scorso: il 15 gennaio 2022 uno sversamento di petrolio, di oltre 11’500 barili di greggio, ha inquinato le acque e le coste delle riserve marine di Ancón e Punta Guaneras (v. articolo di Fredi Sergent su «Azione» del 21 febbraio 2022). Ma è solo l’ultimo di una lunga serie, tra i più gravi l’elenco ne annovera una trentina avvenuti negli ultimi vent’anni. Tra i luoghi contaminati, Mauritius (agosto 2021), le aree marine a ridosso di Santa Barbara (Usa, 2015); Tauranga (Nuova Zelanda, 2011); 180 km da Aberdeen (Scozia, 2011); al largo di Mumbai (India, 2010); Porto mercantile di Dalian (Cina, 2010); al largo di Singapore (Malaysia, 2010); Golfo del Messico (Louisiana, 2010), Great Keppel Island (Australia, 2010). E l’elenco potrebbe continuare ancora per molte righe, senza risparmiare nessun continente, nessun mare, finanche alcuni fiumi sono stati negli ultimi anni inquinati. Ma quali segni hanno lasciato nell’ambiente questi disastri?
Che cosa succede dopo la notizia, dopo il clamore mediatico che a un certo punto si spegne? Sono quantificabili i danni sul lungo termine? In verità non è così semplice da indagare, ma ci si può fare un’idea cercando di capire quello che accade fisicamente almeno nei momenti iniziali, quando si verificano simili emergenze ambientali.
Considerate le specifiche chimiche del petrolio (vedi articolo correlato), per attuare un’efficace attività di mitigazione dei danni che si verificano in seguito a uno sversamento di questa sostanza è necessario agire in fretta e con competenza e conoscere al più presto possibile l’esatta composizione del materiale disperso nell’ambiente (aria / acqua). Per fare questo è imprescindibile la più ampia collaborazione con i responsabili degli sversamenti.
I processi di trasformazione del greggio disperso (il cosiddetto weathering) sono inizialmente molto rapidi se esso è esposto all’azione dell’acqua, dell’ossigeno, della radiazione solare, dei micro-organismi, e rallentano quando il composto raggiunge uno stato di equilibrio con le condizioni ambientali. L’impatto visivo di una marea nera è sicuramente molto forte e impressionante; ciononostante, svia l’attenzione da altri processi fisico-chimici che si verificano nell’aria e nella colonna d’acqua, che non sono solamente quelli immediatamente sovra o sottostanti la chiazza galleggiante, bensì aree a decine di chilometri di distanza, raggiunte da materiali inquinanti trasportati dai venti, dalle turbolenze, dalle correnti marine e dalle maree.
I componenti del greggio che non evaporano nell’atmosfera e che si disperdono nell’acqua, inizialmente tendono a galleggiare. La chiazza può rimanere coesa o disgregarsi per l’effetto dei venti, dei moti ondosi e dei composti chimici disperdenti appositamente immessi sulla superficie del mare da parte di professionisti specializzati. La coltre galleggiante soffoca i primi anelli della catena alimentare marina, soprattutto fitoplancton e alghe (che necessitano del processo di fotosintesi per sopravvivere), ma anche zooplancton e le larve dei pesci, cioè quegli elementi da cui dipendono fauna ittica e creature marine più complesse nelle proprie funzioni alimentari e riproduttive.
Una delle conseguenze più documentate e note è che la massa galleggiante (bituminosa) ricopre gli animali con i quali viene in contatto, sia che risalgano per respirare (mammiferi e rettili), sia che si tuffino in mare per pescare o che si posino sulla superficie (gabbiani, pellicani, eccetera), causando perdita di idrodinamicità, perdita di calore corporeo e limitandone i movimenti. Sembra inverosimile ma, per quanto macabro, questo fenomeno produce danni limitati e sostanzialmente trascurabili. Durante la fase di galleggiamento, infatti, il greggio rilascia nell’atmosfera soprattutto i componenti volatili, alcuni dei quali estremamente tossici e cancerogeni; ciò che galleggia è un’emulsione di acqua marina, aria, composti bituminosi e olio, simile a una mousse.
Meno noto è quanto avviene nell’aria e sott’acqua. Alcuni componenti si dissolvono, si ossidano, si trasformano in sostanze completamente diverse. Molto lentamente esse precipitano verso il fondale, influenzate da vari fattori, quali la temperatura e la composizione dell’acqua, il moto ondoso, le correnti marine. La sedimentazione sui fondali avviene più velocemente ove la profondità è minore.
La mousse galleggiante viene aggredita con due principali metodi: l’incendio di aree circoscritte – da cui consegue un inevitabile inquinamento aereo e rilascio di anidride carbonica e composti cancerogeni in atmosfera – e lo spargimento di solventi, detergenti e surfattanti, con lo scopo di modificarne la composizione e facilitarne il dissolvimento. Lo scopo non è quello di asportare la mousse (con barriere di contenimento e materiali assorbenti) e di ritrattarla in ambienti controllati, bensì di renderla meno visibile e trasformarla in piccoli elementi che si disperdono. Maggiore è l’ampiezza della colonna d’acqua sottostante, maggiore è la possibilità che tali inquinanti si lascino trasportare nella massa oceanica, raggiungendo aree lontanissime dall’origine.
Contemporaneamente inizia il processo di bio-sedimentazione. Il plancton e altri organismi filtratori ingeriscono dette sostanze e le metabolizzano. Risalendo nella catena alimentare esse determinano squilibri di varia natura, fra cui la nascita di embrioni deformati, l’infertilità, una maggiore sensibilità a mutamenti ambientali aggiuntivi. Ma determina altresì un processo di adattamento, di selezione e di resilienza.
L’ecosistema marino è molto complesso e soggiace a naturali fluttuazioni nella composizione delle proprie specie, sia in termini quantitativi sia qualitativi (varietà e distribuzione). Le conseguenze a lungo termine degli sversamenti che periodicamente si verificano non sono invece determinabili, essendo impossibile quantificarne l’impatto sui processi riproduttivi, sulle specie colpite, sull’ampiezza delle aree in cui i diversi composti verranno dispersi.