La giovane politologa Giada (Vincenzo Cammarata)

La guerra agli occhi di giovani e bambini

Psicologia - Il peso emotivo legato al conflitto richiede un canale di ascolto appropriatoe narrazione adeguata
/ 09.05.2022
di Maria Grazia Buletti

Il conflitto in Ucraina non preoccupa solo gli adulti, ma pure giovani e bambini. E ci ha sorpresi a riflettere sulla sua natura così controversa. «La guerra è un conflitto non risolto e il conflitto nasce dalla diversità che può sfociare in ostilità. Per sua natura, non è cattivo di per sé perché è parte delle relazioni: lo si sperimenta in famiglia (microsocietà) e lo si vive in società, quando il dialogo non è sufficiente a risolvere le incomprensioni e fatichiamo nell’accettazione dell’altro. Così si arriva allo scontro».

A parlare è lo psichiatra Michele Mattia, presidente di Asi-adoc (Associazione della Svizzera italiana per i disturbi ansiosi, depressivi e ossessivo-compulsivi) che ricorda pure le altre guerre al mondo, «ma questa è in Europa, vicino casa, e perciò ci fa più paura». Le ansie riemergono dal passato di chi ha visto l’ultima guerra in Europa: «Quando al telegiornale è stata pronunciata la parola guerra, mi ha impressionato vedere mia nonna andare in panico, come se per un attimo fosse tornata indietro nel tempo». Giada è politologa, già delegata giovanile per la Svizzera alle Nazioni Unite e co-fondatrice e co-presidente di ZETA Movement, associazione che si occupa di sensibilizzare i giovani sul tema della salute mentale. «Ho cercato di tranquillizzarla. Poi, ho pensato che non viviamo una simile situazione così vicino a noi da tanto tempo, e che perciò le generazioni ne sono toccate in modo diverso».

Dice di pensare ai due anni tosti di pandemia, dai quali speravamo di uscire finalmente sereni, che però ci hanno catapultati direttamente in questo dramma: «Ho pensato alle persone, ai civili che stanno scappando e alle mie analisi politiche che ora perdevano di significato. Mi mancano le parole per l’emozione e mi rendo conto di non riuscire a staccare, guardo sempre le notizie». Come lei, i nostri giovani sono messi a dura prova e lamentano emozioni molto simili: «Questa guerra ci accompagna ogni giorno, è diventata parte delle discussioni con genitori e amici: la condivisione aiuta, perché tenersi tutto dentro consuma e aumenta quel senso di impotenza difficile da accettare».

Con ansia, preoccupazione, impotenza e consapevolezza di sentirsi «privilegiata rispetto a chi sta vivendo personalmente la guerra», Giada si fa portavoce del sentire comune: «La nostra è una preoccupazione per il futuro. Negli ultimi anni noi giovani siamo confrontati con un passato legato al Covid, un presente di guerra e un futuro che guarda al cambiamento climatico, come se il mondo ci mettesse dinanzi a tante situazioni più grandi di noi, ma con la coscienza di dover contribuire per migliorare (non peggiorare) le cose o, come nel caso dell’Ucraina: cercando di aiutare, ciascuno come può».

Fra incertezza e timori, non è semplice sapere se e come affrontare con i bambini argomenti così difficili. «Non riteniamo di dover necessariamente affrontare queste cose coi nostri figli: i bambini hanno il diritto di vivere la loro infanzia con la spensieratezza che meritano». È Maria e ha tre figli (Paolo, Eros e Mirta di 12, 10 e 4 anni); in famiglia li osservano attentamente per capire se la guerra può destare in loro domande o preoccupazioni; dice di essere «perfettamente cosciente che i più grandi sentano l’argomento a scuola dai coetanei». Dal canto suo, Barbara è certa che i suoi figli di 12 e 10 anni abbiano colto gli umori in famiglia «sia durante la pandemia sia con la guerra. Percepiscono che qualcosa ci preoccupa o assorbe la nostra attenzione». Propende per «dare una spiegazione adeguata all’età. Restiamo semplicemente in ascolto: le loro domande sono l’occasione per parlare della situazione e della sua evoluzione (ammettendo pure di non avere risposte a tutto); cerchiamo di capire cosa pensano e se sono preoccupati».

Entrambe queste famiglie restano vigili, non prendendo iniziative, e cercano di rispondere alle eventuali sollecitazioni dei propri ragazzi. La scuola fa la sua parte: «Nostra figlia maggiore non pone molte domande, ma a scuola hanno organizzato una “giornata della pace” e se qualcosa arriva a casa, ne parleremo tutti insieme. Mio figlio mi ha chiesto se credo che scoppierà la Terza guerra mondiale, lo ha sentito dai suoi compagni».

La guerra preoccupa giovani e bambini, chi più chi meno, scatenando molte domande. Alla famiglia il compito di creare il dialogo, nella consapevolezza che l’educazione alla pace è l’unica educazione a cui i bambini hanno diritto. «Ma quando si parla di pace, dobbiamo essere coscienti del paradosso che nella parola pace è contenuta la guerra, il conflitto. È importante rapportarci ai nostri figli con la dimensione della conoscenza del conflitto che è parte delle relazioni, e perciò dobbiamo apprendere a gestirlo», afferma lo psichiatra, con la certezza che «il racconto ai bambini di cose complesse e difficili passa attraverso la narrazione della fiaba. Nel film di Roberto Benigni La vita è bella il padre racconta la guerra nella guerra come narrazione reale, un gioco che non crea un trauma, affinché il bambino possa ricevere le risposte che merita senza entrare nel trauma della guerra».

In fondo, nella vita è inevitabile che il predominio di alcuni a volte si manifesti su altri: «La fiaba è narrazione che aiuta perché contiene il cattivo, e assume la potenza di raccontare il dolore, il dramma, attraverso un racconto che entra nel bambino e crea la dimensione della pace con la guerra dentro, dove però la pace vincerà». Se il ragazzo manifesta timori o disagi: «Parlandone egli vuole entrare in relazione e bisogna stargli vicino, interessarsi della sua paura. Avviciniamoci, abbracciamolo, facciamogli sentire la protezione dell’adulto, riducendo la paura dell’aggressore che potrebbe essere dietro l’angolo».

Il primo passo per ridurre l’angoscia è farlo in una dimensione «affettuosa, di tenerezza e presenza. Cerchiamo poi di capire cosa nasconde questa paura o se necessita solo di protezione». Se invece il ragazzo si chiude in un mutismo selettivo: «Usiamo una comunicazione non verbale, attraverso giochi relazionali, creativi, completamente diversi dalla guerra. Risvegliamo così in lui le sue aree di piacere, entrando nelle sue paure e permettendogli di tornare a parlare».

Giada testimonia l’accoglienza da parte dei suoi di una famiglia ucraina «per dare un aiuto», cosa che lei definisce: «Esperienza speciale, di condivisione e arricchimento». Un modo di sentirsi attivi verso questo senso di impotenza che nutriamo, ma che va attentamente calibrato secondo le proprie risorse, conclude Mattia: «Origine è accoglienza, dove io sono l’altro perché potrei essere al posto suo. Quindi, vorrei quest’accoglienza. Bisogna riflettere bene sulle energie e sulle forze di cui disponiamo e se non fosse possibile accogliere, è preferibile dare una mano donando ore libere, un aiuto finanziario o in altro modo».

Il dottor Mattia è certo che dalla guerra si potrebbe trarre grande insegnamento: «Creando nelle famiglie gioco, regole e coesione che spesso sono venute a mancare. Così, la criticità di questa guerra potrebbe trasformarsi in opportunità, con l’effetto collaterale del ritorno alla dimensione collettiva nella ricostruzione delle relazioni che stavamo perdendo. Potremmo tornare a quel significato di famiglia e unione sociale sfumati negli ultimi 20-30 anni». Perché, come dice da adulto il bambino Giosuè ne La vita è bella: «Questa è una storia semplice, eppure non è facile raccontarla, come in una favola c’è dolore, e come in una favola, è piena di meraviglia».