Meno Comuni è meglio: intervista a Elio Genazzi

La prossima primavera ci sarà la seconda consultazione sul «Piano delle aggregazioni comunali» che dovrebbe poi portare il Gran Consiglio ad approvare il progetto. Elio Genazzi, capo della Sezione enti locali e del progetto «Ticino 2020», in che misura il numero dei Comuni condizionerà la Riforma 2020?
Il numero dei comuni che uscirà dal PCA costituirà certo un elemento di riferimento importante per il progetto Ticino 2020. Dalla dimensione dei comuni si potrà misurare la capacità per l’ente locale di gestire i compiti che gli verranno attribuiti. Ridurre il numero degli enti locali significa poter disporre di comuni territorialmente più ampi e demograficamente più popolosi, ma soprattutto maggiormente in grado di svolgere efficacemente determinati compiti, tenuto conto delle mutate esigenze della società. Se fino agli anni 70-80 il comune piccolo poteva essere sinonimo di autonomia ed indipendenza, oggi non lo è più. Mobilità e abitudini dei cittadini sono mutate al punto di impedire ai comuni troppo piccoli di poter idealmente far fronte, come avveniva in passato, ai vari compiti di prossimità. La frammentazione eccessiva dei comuni ha peraltro determinato nel tempo un processo di centralizzazione dei compiti verso il Cantone, che ha di fatto privato gli enti locali della possibilità di occuparsi in prima fila dei compiti locali. In tal senso il PCA costituisce un importante elemento di riferimento del progetto Ticino 2020.

Mi può fare un esempio pratico di un aspetto del rapporto fra Cantone e Comuni che deve essere corretto?
Quale primo esempio le posso portare quello degli anziani, la cui politica complessiva comporta per Cantone e Comuni una spesa pubblica dell’ordine dei 170 milioni di franchi all’anno. Si tratta di un ambito la cui attuale legislazione attribuisce al Cantone buona parte delle competenze decisionali, per poi chiamare i Comuni al finanziamento dell’80% degli oneri (ca.136 milioni di franchi). Si tratta di un esempio che stride fortemente con il principio del «chi comanda paga». La mancata responsabilizzazione dei Comuni impedisce loro di influenzare la spesa, causando un diffuso malessere. Un secondo esempio è quello dell’Assistenza sociale, le cui competenze decisionali sono interamente nelle mani del Cantone, pur caricando il 25% dell’onere sui Comuni. Gli stessi Comuni sono inoltre tenuti per legge a coadiuvare il Cantone nella raccolta dei dati dei richiedenti, ma senza in realtà poter incidere sulle relative decisioni.

È sicuro che minor centralizzazione e più autonomia comunale migliori la gestione della cosa pubblica?
Il concetto di centralizzazione è antitetico a quello di autonomia, sinonimo di decentralizzazione. Si tratta di nozioni di fondamentale importanza nell’interpretazione del nostro sistema federalista, che traggono lo spunto dall’articolo 5a della Costituzione federale, secondo cui «nell’assegnazione e nell’adempimento dei compiti statali va osservato il principio della sussidiarietà». Di principio si allude al fatto che l’esecuzione dei compiti deve, per quanto possibile, concretizzarsi vicino ai cittadini affinché essi possano meglio influenzare il processo politico. In altre parole significa che un compito deve preferibilmente essere svolto nel contesto locale e che siano trasferiti al livello cantonale unicamente quei compiti che eccedono le capacità dei Comuni e a livello federale quelli che eccedono le capacità dei Cantoni. Quando il decentramento si giustifica comporta d’altronde dei vantaggi importanti poiché permette di adattare ed ottimizzare meglio l’offerta dei servizi alle esigenze locali e alla loro efficacia produttiva. Le ragioni che hanno spinto ad avviare «Ticino 2020» sono state dettate dalla necessità di ridare autonomia al Comune ticinese in quei settori in cui essa è stata disattesa, con la dichiarata volontà di migliorare l’attuale gestione della cosa pubblica.


La grande riforma

Amministrazione cantonale – Entra nel vivo il cantiere della riforma «Ticino 2020, per un Cantone al passo con i tempi». Un progetto ambizioso per rivedere i rapporti tra Cantone e Comuni
/ 27.02.2017
di Fabio Dozio

Guardando alla storia del Ticino bisogna prendere atto che questo non è un paese di riforme. L’organizzazione istituzionale non è stata modificata nel corso dell’ultimo secolo. A parte qualche piccola correzione nella definizione dei dipartimenti che stanno al vertice dell’Amministrazione cantonale e poco o niente a livello comunale. Unico evento recente, la riduzione del numero dei Comuni.

«La riforma del comune ticinese, per quanto riguarda l’ampiezza delle giurisdizioni, è impresa di grande lena: essa richiede uno studio profondo delle varie situazioni e potrà essere attuata solo attraverso una profonda opera di persuasione e in seguito a decisioni, prese d’autorità, dai poteri cantonali». Lo scriveva, nel 1937 (sic!) Antonio Galli, studioso acuto e versatile e, fra l’altro, consigliere di Stato dal 1926 al 1935.

Nel 1803, alla nascita del Cantone, i Comuni erano 268. Nel 2000, duecento anni dopo, pochi di meno, 245. Con la nascita della nuova Bellinzona, ad aprile saranno 118. La riduzione del numero dei Comuni, già d’attualità nel 1937, è stata affrontata in questi ultimissimi anni. Tempi lunghi, non c’è che dire. E non è ancora finita. Il Piano cantonale delle aggregazioni, proposto dal Governo, prevede che il numero dei Comuni ticinesi si riduca a 23. Ma si sono già innalzate voci critiche e decisamente contrarie. «Si oppongono, alla fusione dei comuni, lo spirito particolarista ancora molto diffuso tra le nostre popolazioni, le piccole rivalità tra villaggio e villaggio, un falso amor proprio locale, e, in alcuni casi, anche, divergenze di opinioni politiche, preoccupazioni personali o di famiglia e contrasti di interessi». Lucidissima osservazione: recente? No, è ancora Antonio Galli, nelle sue Notizie sul Canton Ticino, testo che risale a ottanta anni fa.

Diminuire il numero dei Comuni è un obiettivo, ma la vera riforma con cui si sta confrontando Bellinzona è un’altra: si tratta di «Ticino 2020, per un Cantone al passo con i tempi» una ridefinizione dei rapporti tra Cantone e Comuni. La necessità di una correzione parte da lontano: dalla constatazione che il mondo è cambiato e che, in qualche modo, le istituzioni vanno adattate. La Confederazione, per esempio, ha adottato «la più grande riforma istituzionale della sua storia», come annota il Consiglio di Stato, ovvero, la Nuova perequazione finanziaria e dei compiti tra Confederazione e Cantoni (NPC) entrata in vigore nel 2008. Quindi il nostro Cantone non può essere da meno e deve darsi una mossa.

La strada delle riforme per migliorare le relazioni fra Cantone e Comuni è però irta di ostacoli e di insuccessi. Un primo atto risale al 1998, con gruppi di lavoro che analizzano l’offerta pubblica, valutando 149 compiti, ma «il tentativo di passare a una fase operativa non porta a risultati apprezzabili». Poi c’è «Amministrazione 2000», che non raggiunge tutti gli obiettivi prefissati. Un terzo tentativo, nel 2004: il Dipartimento delle finanze presenta un documento interno dal titolo «Offerta pubblica, proposte di correzione del come e del cosa», ma il Governo non l’approva. Nel 2005 si sottoscrive una dichiarazione d’intenti per l’avvio del progetto: «Cantone e Comuni: flussi e competenze», con l’obiettivo di verificare se «fra le cause di un forte aumento della spesa netta di Cantone e Comuni c’era anche la mancanza di un rapporto diretto tra chi decide e chi assume la spesa». Si mettono a fuoco alcuni temi sensibili: scuole comunali, case anziani, servizi di assistenza e cure a domicilio e l’organizzazione di sportelli sociali regionali. Il progetto, che prometteva bene, si schianta contro il Preventivo 2007, con le misure che incidono negativamente sui Comuni, e quindi non viene approvato. Passano ancora alcuni anni finché nel 2010 c’è l’ennesimo tentativo: una «Piattaforma di dialogo Cantone Comuni», guidata dal professor Angelo Rossi, che permette di varare due messaggi governativi con proposte pratiche in materia scolastica, nell’ambito del settore degli anziani e dell’assistenza e cura a domicilio: in questo ambito spunta il concetto «chi paga decide».

Eccoci quindi a un paio di anni fa quando il Governo definisce gli obiettivi per avviare un nuovo progetto di riforma che prevede di intervenire su cinque assi: le aggregazioni comunali, la riforma dei compiti, la revisione dei flussi finanziari, la riforma del sistema di perequazione, la riorganizzazione dell’Amministrazione cantonale e dell’assetto comunale.

Sarà la volta buona? «Alla base di tutto c’è il federalismo, – ci dice Elio Genazzi, responsabile della riforma e capo della Sezione enti locali – è un sistema eccezionale, ma occorre rinfrescarlo e mantenerlo vivo, adattandolo alla società. Al centro della riforma ci deve essere il cittadino. Tutti devono essere sensibilizzati su questo punto cruciale. È il cittadino e non il Cantone o il Comune che deve poter contare su un sistema istituzionale performante».

Il progetto è ambizioso e per raggiungere gli obiettivi il Dipartimento delle Istituzioni mette in piedi un dispositivo eccezionale. Un comitato strategico, composto da due consiglieri di Stato e due rappresentanti dei Comuni, un comitato guida con dieci persone, un gruppo operativo composto da 9 membri, poi sette gruppi di lavoro per complessive 28 persone e infine 7 tecnici di supporto. 58 persone, una task force che dovrà smontare il crogiuolo di connessioni che legano il Cantone ai Comuni per ridisegnare razionalmente una nuova mappa delle relazioni e delle competenze. Il costo complessivo dell’operazione è stimato in 12,8 milioni di franchi, di cui 9,6 assunti dal Cantone (3,2 milioni sotto forma di credito quadro ed altri 6,4 milioni già compresi nei costi ordinari del personale) e 3,2 milioni sostenuti dai Comuni.

Uno degli obiettivi della riforma è risparmiare. Un dato evidente, considerata la situazione finanziaria del Cantone. Il concetto guida deve essere «chi decide paga», o, se si preferisce, «chi paga decide». Nel dibattito parlamentare che ha dato via libera al progetto è emersa più volte l’esigenza di restituire ai Comuni margini di autonomia rendendo concreto il principio di sussidiarietà. Bisogna capire chi fa che cosa ed evitare che ci siano inutili doppioni. Si metteranno sotto la lente sei settori: l’educazione, i trasporti pubblici, la previdenza sociale, l’aiuto agli anziani, la promozione e la protezione delle famiglie e la salute pubblica.

La ridefinizione dei compiti dovrebbe ridare ai Comuni maggiore autonomia, perché negli ultimi decenni il Cantone ha centralizzato. «Esigenze sociali sempre più complesse – si legge nel documento 2020 – e il moltiplicarsi delle leggi hanno aggrovigliato i rapporti fra i due livelli istituzionali, determinando una perdita di efficacia e di efficienza delle politiche pubbliche».

La riforma 2020 non è priva di rischi. Come abbiamo visto, nel corso degli ultimi venti anni ci sono stati diversi tentativi falliti. L’intento dei riformatori è di recuperare tutto il buono dei progetti precedenti, ma bisognerà avere la migliore disponibilità da parte di tutti gli attori per ottenere risultati positivi. Sarà necessario poter contare su un clima politico disteso tra Cantone e Comuni, ci dovrà essere condivisione e partecipazione da parte di tutti.

Ma uno dei punti cruciali è dato dal numero dei Comuni con cui bisognerà fare i conti. Se sono più di cento, come oggi, ci saranno cento interlocutori da convincere e motivare, se saranno 23 (utopia?) le relazioni si semplificano. «Ticino 2020» è quindi indissolubilmente legato al Piano delle aggregazioni comunali: meno Comuni ci saranno, più facile sarà compiere la Grande Riforma.