Vaso ottagonale del 1699 proveniente dalla Casa Manfrina di Borgnone (Centovalli), ora di Silvia Manfrina a Giubiasco (Fabio Girlanda)

Gli studi proseguono, in Ticino e nei Grigioni

Si riescono a grandi linee a distinguere le pietre ollari di aree alpine diverse, ma lo stesso tipo di pietra può essere presente in più regioni. Senza considerare che la grande diversità della composizione prevale anche a livello più locale e persino nello stesso giacimento. Anche nella Svizzera italiana la ricostruzione delle reti commerciali storiche passa attraverso lo studio di reperti archeologici per scoprire, tra l’altro, la provenienza della pietra. Un contributo recente di Filippo Luca Schenker, ricercatore SUPSI in geologia e petrologia e Cristian Scapozza (nel numero speciale, Quaderno di archeologia Svizzera, 2019) propone, proprio basandosi sull’eterogeneità di composizione della pietra ollare, un metodo sperimentale, meritevole di approfondimenti, che offrirebbe una lettura migliore anche dei reperti archeologici, attraverso l’individuazione di una sorta di DNA geochimico della roccia campionata utile per risalire alle macroregioni di provenienza.

La stragrande maggioranza dei reperti archeologici in pietra ollare trovati finora in Ticino sono di epoca romana (dal I-II secolo d.C.) e medievale (VII-XIV secolo). Rossana Cardani Vergani, responsabile del Servizio archeologico cantonale, segnala che «è una consuetudine trovarli in necropoli (soprattutto fusaioli sia nel Sopra sia nel Sottoceneri), in luoghi di culto (Chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Quinto, una pisside; Collegiata di San Vittore a Muralto, pentola con coperchio e un calice; Chiesa di Sant’Evasio a Pugerna, un calice), in insediamenti (Legato Maghetti a Lugano, oggetti di uso quotidiano). Sin dal 1967, grazie a Pierangelo Donati, che dirigerà per venticinque anni l’Ufficio monumenti storici, la ricerca archeologica ha un ruolo importante in Ticino e porta al ritrovamento di molti reperti, anche in pietra ollare, a studi e suoi contributi sul tema legati ai risultati di scavo, alle numerose collaborazioni scientifiche con istituti d’Oltralpe e alla volontà, insita in Donati, di indagare il rapporto fra il reperto e la materia prima. La collaborazione fra l’Ufficio beni culturali e l’Istituto scienze della Terra della SUPSI, una realtà da alcuni anni non solo per la pietra ollare, è sempre più stretta, con buone prospettive. Se si decide di fare studi approfonditi, oggi disponiamo di più strumenti scientifici di una volta».

Notizie incoraggianti sulla pietra ollare giungono anche dalla Val Mesolcina e dalla Calanca. «Da una decina d’anni a questa parte – annota l’archeologa Maruska Federici Schenardi – si avverte una presa di coscienza, in particolare dei ricercatori, per il patrimonio della pietra ollare, siti compresi, che sono una decina. Una buona premessa per ulteriori studi in materia, visto che resta praticamente tutto da indagare». Una piccola sezione sulla pietra ollare si trova nel Centro culturale di Circolo a Soazza (Paolo Mantovani), mentre un approfondimento è presentato nel Museo moesano a San Vittore che espone reperti degli scavi archeologici di Roveredo Valasc del 2007-2009 intrapresi durante la costruzione della galleria autostradale. Sul territorio si segnala tra l’altro la presenza di möcc, ossia lo scarto della lavorazione del laveggio, integrati nell’acciottolato di San Martino a Soazza o a Norantola nelle mura del castello.


La fortuna della pietra ollare

Si mantiene viva la cultura legata a questa roccia straordinaria, anche nelle Centovalli, dove si stanno inventariando manufatti e oggetti
/ 02.03.2020
di Elena Robert

Può capitare di imbattersi nella pietra verde persino camminando su sentieri di montagna. Ne fa riferimento per primo Plinio il Vecchio (23-79 d.C) nel trattato Naturalis Historia e ne scrivono anche viaggiatori letterati e naturalisti che percorrono il nostro territorio nel Settecento e nell’Ottocento come Schinz, Lavizzari, Bonstetten. Tenera e al tatto untuosa perché contiene talco e altamente resistente al calore che mantiene a lungo, la pietra ollare (dal latino olla, pentola) si rivela utilissima all’uomo preistorico dell’arco alpino: la sua diffusione diventa capillare ai tempi dei Romani e in epoca tardo antica raggiunge località lontane. Manufatti in pietra ollare sono conosciuti nei principali mercati europei sin dal 1500. In età moderna l’utilizzo rimane invece confinato nelle valli. Fino ai primi del Novecento se ne ricavano oggetti di uso quotidiano come recipienti da fuoco per cucina (i laveggi), forni e stufe (le pigne), elementi strutturali dell’edilizia ornamentale, arredi e suppellettili sacri. Oggi permane l’interesse per le stufe e le pentole, che continuano ad essere prodotte, ma anche per le sculture e l’artigianato. Pur essendo diffusa nelle valli alpine della Svizzera italiana e dell’Italia, ma anche in Vallese, Canton Uri e Grigioni, la pietra ollare oggi è importata da Brasile, Finlandia, Norvegia. Nell’arco alpino c’è una moltitudine di giacimenti sparsi e abbandonati mentre si segnala una concentrazione di affioramenti e cave nel Verbano Cusio Ossola (Museo della pietra ollare, Malesco, Val Vigezzo) e soprattutto in Valmalenco, Valtellina e Valchiavenna, dove la commercializzazione dei prodotti è ancora vivace, legata anche alla riscoperta della tradizione domestica e culinaria. La fortuna della pietra ollare, anche se forse un po’ in declino, non è mai del tutto tramontata.

Questa roccia ultrabasica è rara perché ha origine nel mantello continentale o oceanico dove si forma la roccia madre di riferimento, la peridotite. Durante la formazione delle Alpi viene portata sulla superficie sottoposta a pressione e temperatura elevate e a un processo di metamorfismo idrotermale che muta la sua composizione mineralogica, trasformandola in pietra ollare, molto diversa e meno dura della roccia originaria. È il fenomeno dell’erosione a permetterci di vederla sul terreno, dove si concentra in forma di lenti più o meno estese. Pur rappresentando meno dell’1% delle rocce affioranti nelle Alpi, verrà sfruttata dall’uomo per tre millenni.

Il patrimonio della pietra ollare giunge fino a noi attraverso le tracce rimaste sul territorio, reperti archeologici, manufatti e oggetti, la lingua e la terminologia dialettale specifica, toponimi e stemmi, testimonianze del sapere di cavatori e artigiani, studi e ricerche, documentari e film. I toponimi Predera in Val di Peccia, Lavesc tra la Val Leventina e la Val Verzasca, Turnill in Val di Carassino, Cave delle Pigne in Val Bedretto, il nome stesso della Val Lavizzara, gli stemmi patriziali di Fusio, Peccia e Prato Sornico con il simbolo del laveggio, non sono che alcuni esempi. Nella natura si osservano incisioni rupestri anche su massi di pietra ollare, come a Djula, vicino a Dunzio (Aurigeno), a Busbera-Arcegno (Losone), o ancora, tra Frasco e Personico, in prossimità del Passo del Gagnone. In certi giacimenti si notano segni di estrazione, per esempio all’Alpe di Magnello in Val Rovana, alla Cava di Maniò in Val Bedretto, sotto la Cima di Bresciana in Val di Carassino, a Borgnone e Verdasio nelle Centovalli, alla Marscia d’Aion in Valle Calanca. Tracce storiche che il buon senso impone di limitarsi a osservare, anche se si disponesse della necessaria autorizzazione per la ricerca e la raccolta di rocce, minerali e fossili: rischierebbero infatti di andar perse o essere irrimediabilmente danneggiate. La protezione indiretta di questo patrimonio avverrà quando anche affioramenti, giacimenti e cave di pietra ollare saranno contemplati dall’Inventario cantonale dei geotopi che il Cantone sta elaborando, sulla base dei rilevamenti effettuati per l’Atlante geologico della Svizzera.

Molte conoscenze sulla pietra ollare in Ticino si devono alla notevole ricerca della prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso svolta dal Museo di Valmaggia (Bruno Donati) con l’Ufficio cantonale dei Musei etnografici (Augusto Gaggioni) e l’Ufficio cantonale dei monumenti storici (Pierangelo Donati), con il supporto di uno studio sistematico esteso all’arco alpino su territorio svizzero e italiano, ossia l’indagine geologica e di laboratorio, confluita in una banca-dati computerizzata, di Hans-Rudolf Pfeifer e Vincent Serneels dell’Università di Losanna, cui si unisce Tiziano Mannoni dell’Università di Genova. Gaggioni porta anche a termine l’inventario delle pigne in Valmaggia (435 manufatti). Tutti questi materiali e risultati, compresi quelli inerenti a Arcegno (Ente manifestazioni arcegnesi) e le fonti scritte (Marino Lepori) sono presentati nella mostra a Cevio del 1985 e pubblicati l’anno seguente in 2000 anni di pietra ollare. Il Museo di Valmaggia è l’unico tra i musei etnografici in Ticino che ospita un approfondimento tematico permanente sulla pietra ollare: proprio a Fusio e in Val di Peccia sono del resto ubicati i giacimenti più redditizi del Cantone, rimasti attivi fino all’inizio del Novecento. Il catasto delle pigne interessa poi anche la Val Bedretto dove Massimo Lucchinetti ne repertoria 102: la più antica del Ticino è del 1581 a Ossasco. Hans-Rudolf Pfeifer, professore emerito di geologia dell’Università di Losanna, nel campo della pietra ollare che continua ad appassionarlo e a studiare, può essere considerato un pioniere, contando già allora dell’esperienza di quindici anni dedicati alla relazione genetica tra la stessa e la sua roccia madre. «Inventariammo 400 giacimenti, 120 dei quali nel Ticino e Moesano (associati a una quindicina di laboratori di produzione) ed eseguimmo un migliaio di sezioni sottili» racconta il geologo e geochimico zurighese: «Queste ci restituiscono con chiarezza la composizione mineralogica, grazie alla luce polarizzata. Con un po’ di fortuna, al microscopio, nella medesima sezione sottile, si riesce a fermare come in un fotogramma la storia della roccia e a leggere il processo di trasformazione da peridotite a pietra ollare». Pfeifer conosce bene il Ticino, in particolare il Locarnese, avendolo scandagliato per anni nell’ambito dell’elaborazione della carta geologica della regione uscita nel 2018 e di cui è il principale autore.

L’attenzione degli studiosi per la pietra ollare si manifesta nuovamente negli ultimi dieci anni e ci sono tutte le premesse affinché continui, attraverso indagini e iniziative di sensibilizzazione sul territorio. Nel 2012 Cristian Scapozza, geografo e geomorfologo alla SUPSI, curatore del Museo della Valle di Blenio, approfondisce il tema con un contributo sulla Val di Blenio e la Val Pontirone: in tutto nove piccoli giacimenti sfruttati per i laveggi dal 1500 al 1850 ca. e tre laboratori, uno dei quali è di Tiziano Conceprio tuttora attivo a Corzoneso. Diversi progetti di valorizzazione sono attuati in luoghi storici di sfruttamento delle risorse geologiche: «Meritano la stessa attenzione dei siti naturali biotici e culturali» osserva il ricercatore, per il quale «la protezione dinamica, anche per la pietra ollare, deve passare attraverso la conoscenza». Nel 2013 il geografo Luca Pagano aggiorna la ricerca in Valmaggia con un inventario di testimonianze dello sfruttamento sfociato nel 2014 in un pieghevole divulgativo con la proposta di escursione da Campo Vallemaggia all’Alpe Magnello che segue la sequenza di attività dal giacimento al prodotto finito: un’iniziativa del progetto Interreg Sitinet cui partecipano il Museo cantonale di storia naturale e Vallemaggia Turismo. Nei convegni di Carcoforo e Varallo Sesia (Vercelli) promossi dal Club Alpino locale su La pietra ollare nelle Alpi. Coltivazione e utilizzo nelle zone di provenienza confluiranno parecchi nuovi contributi su valli italiane e svizzere, pubblicati a fine 2018. Tre sono inerenti a testimonianze di pietra verde negli edifici sacri della Valmaggia (Flavio Zappa), al patrimonio vallesano (Hans-Rudolf Pfeifer), alle Centovalli e Terre di Pedemonte (Fabio Girlanda e Hans-Rudolf Pfeifer). Passione per la mineralogia e la storia locale e competenze scientifiche accomunano la ricerca in corso in quest’area del Locarnese da quando nel 2015 Fabio Girlanda di Verscio, cercatore di minerali conosciuto in Ticino e Hans-Rudolf Pfeifer uniscono le forze per approfondimenti. «Il comprensorio sicuramente non vanta la plurisecolare tradizione della Valmaggia o delle vicine valli italiane» annota Girlanda: «Gli archivi sono poveri e le fonti orali al momento lacunose, eppure scoperte interessanti non mancano, come un nuovo affioramento a Moneto, alcune pigne o il bel vaso ottagonale con coperchio di Borgnone. È di Intragna l’antica scultura della partoriente sulla sedia gestatoria, esposta al Museo di Valmaggia. C’è anche il lavoro dell’artigiano e artista Ettore Jelmorini (Intragna 1909-1968), parte della cui ricca produzione di opere in pietra ollare è nel Museo regionale delle Centovalli e del Pedemonte. In quest’area geografica stiamo inventariando a tappeto manufatti e oggetti, al momento oltre un centinaio, gran parte dei quali del Seicento. E indaghiamo attraverso nuove sezioni sottili la composizione geo-mineralogica nei giacimenti principali, che sono una quindicina».