Dagli anni Settanta, quando hanno cominciato a diffondersi, i videogiochi sono diventati sempre più strumenti di uso quotidiano, con una penetrazione e un fatturato che oggi superano quelli del cinema e della musica messi insieme. Ciononostante continuano però ad avere una connotazione tendenzialmente negativa e ad essere considerati quantomeno diseducativi dai genitori.
A questo tema è stata dedicata una conferenza alla Biblioteca cantonale di Bellinzona, intitolata «Videogiochi, genitori e figli», introdotta dal direttore dell’Istituto Stefano Vassere. L’incontro – cui hanno preso parte Alessio Petralli, direttore della Fondazione Möbius, Daniele Parenti, direttore del Centro di risorse didattiche e digitali (CERDD), Rosy Nardone, ricercatrice e pedagogista, Filippo Zanoli, giornalista digitale e specialista di videogiochi – rientra nel ciclo «Il futuro digitale prossimo e venturo».
«Il videogioco può essere un territorio d’incontro educativo e relazionale, in famiglia e a scuola», afferma Rosy Nardone, docente in Didattica e Pedagogia Speciale presso l’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara. Secondo la relatrice, l’atteggiamento pedagogico dominante nei confronti del mondo videoludico è però spesso di censura, con la motivazione che esso «non porta da nessuna parte» o, peggio, è deviante. «Il problema è che lo si dice da inconsapevoli», continua Nardone.
Ma com’è possibile che i genitori di oggi, molti dei quali hanno avuto un Nintendo e, successivamente, una PlayStation, possano essere «inconsapevoli» in questo ambito? «Il videogioco è cambiato moltissimo, soprattutto negli ultimi anni, ed è quindi lecito capirci poco nel 2018 anche se si è stati giocatori in passato e ogni tanto si fa un gioco sullo smartphone», spiega Filippo Zanoli, che, dopo la formazione in Scienze linguistiche italiane presso l’Università degli Studi di Milano e il Master in Digital entertainment: Media & Design ha svolto attività di ricerca su videogiochi, edutainment e new media.
Si critica quindi qualcosa che non si è «letto», verbo con il quale ci si riferisce a Henry Jenkins, uno dei massimi esperti delle nuove forme di alfabetizzazione ai media. «Jenkins dice che noi adulti siamo “lettori tipografici”: conosciamo bene il libro, possiamo parlarne e fare recensioni, ma ignoriamo molto della competenza contemporanea di lettura; i millennial sono invece lettori ibridi, possono cioè navigare in un mare di alfabeti non soltanto di inchiostro ma anche tecnologici», afferma la relatrice.
Dobbiamo quindi addentrarci nell’edutainment, il settore dell’editoria multimediale che produce opere le quali permettono di apprendere divertendosi. «Proprio in questo sta la chiave del successo dei videogiochi: essi catturano tanto l’attenzione dei giovani – e anche nostra se solo ci mettessimo a videogiocare – perché fanno divergere, verbo dalla radice meravigliosa, che significa “portarci altrove”, all’interno di mondi di simulazione verosimili o anche l’esatto contrario», commenta la pedagogista.
Il game design di oggi punta infatti sull’apertura. «Quando si crea un videogioco, si costruisce dapprima un grande contenitore, all’interno del quale si inseriscono poi le cose da fare», afferma Filippo Zanoli, che ha avuto qualche esperienza come game designer: «i videogiochi di oggi non sono più strutturati a livelli, sono dei veri e propri mondi aperti, degli spazi complicati e complessi, che, come resa, hanno poco da invidiare al cinema. Come esempio possiamo citare Assassin’s Creed Origins, una serie ambientata nel passato nella quale si vestono i panni di un ladro che esplora varie civiltà, riprodotte molto fedelmente». Anche Super Mario – che tutti conosciamo – si è adeguato a questo trend: «La nuova versione di questo classico è tra l’altro stata pensata per essere giocata in famiglia: si va in due alla scoperta di un mondo, decidendo cosa fare e passandosi il joystick al momento opportuno», continua Zanoli.
Altro videogioco che merita di essere citato è PlayerUnknown’s Battlegrounds. Il principio è quello della saga Hunger Games: gettare i giocatori in uno scontro competitivo per la sopravvivenza dal ritmo incalzante e mozzafiato. Vince l’ultimo giocatore rimasto in vita. «Ad ognuno di essi viene dato un “tool” per creare la propria storia e cercare di essere il superstite. Questo fa sì che ogni partita sia diversa dalle altre, diventando quasi un micro-film di Hunger Games», spiega lo specialista di videogiochi, «per queste caratteristiche, PUBG è stato uno dei videogiochi più “streamati” e giocati in diretta internet attraverso il suo canale o la piattaforma Twitch, che trasmette persone le quali giocano a determinati videogiochi».
Oggi l’oggetto videoludico ha conquistato nuove dimensioni, quelle degli esports e dello streaming. Il primo (dall’inglese «electronic sports») indica il giocare videogiochi a livello competitivo, da amatoriale a professionistico. «Vengono organizzati campionati e i partecipanti possono giocare dalle loro abitazioni, situate anche a migliaia di chilometri di distanza, oppure confrontarsi in un’arena, con tanto di pubblico, commentatori e moviole, come succede per lo sport; le partite passano dal digitale, come succede con lo streaming», precisa Zanoli, «in questo caso uno YouTuber viene ripreso da una webcam mentre gioca ad un videogioco, che racconta allo stesso tempo. Tramite una chat la gente da casa commenta la partita. Il videogioco diventa quindi un’esperienza social, che viene condivisa sì, ma in maniera remota».
Eppure, nonostante queste recenti derive della fruizione dei videogiochi, è bene ricordare che da questi media non siamo stati invasi: «I videogiochi come modelli ludici fanno parte della nostra storia evolutiva; rientrano nella ricerca messa in atto dall’uomo fin da quando ha cercato di comunicare e lasciare tracce che risponde ad una necessità narrativa», afferma Rosy Nardone.
Visti in quest’ottica i videogame vanno riconosciuti come un oggetto culturale a cui i giovani hanno diritto d’accesso. «Siamo davanti a un medium che va compreso e studiato, con un alfabeto e degli strumenti. Ecco la responsabilità dell’adulto: riporre lo stesso tipo di attenzione che presto ad un film, un fumetto o un gioco di società, al videogioco che tanto appassiona mio figlio», continua la ricercatrice. Data la loro presenza nella vita quotidiana dei ragazzi, i videogame dovrebbero anzi essere considerati un’opportunità per le famiglie di ripensarsi: «Percepiamo le tecnologie come alleanze o disalleanze educative? Forse sta in questa domanda la chiave di lettura attorno a cui riaggiornare il nostro concetto di educazione, negoziando e ratificando regole, ruoli, identità, appartenenze e valori – spiega Rosy Nardone – Quando chiedo a genitori o insegnanti “Perché non giocate con i ragazzi?”, ottengo risposte del tipo “Perché loro sono molto più veloci”, “Perché non ci capisco niente”. Il punto è questo: quanto siamo disposti, come adulti, ad invertire i ruoli? Che non vuol dire perdere autorevolezza ma dare riconoscimento di capacità e competenza al minore, chiedendogli “Mi insegni?”, “Mi spieghi?”. Si rimette così in circolo il concetto di ruolo».
Nell’ambito di cui stiamo parlando, i ruoli di ragazzi e adulti sono complementari: i nativi digitali necessitano di adulti consapevoli che li sostengano nella costruzione delle loro esperienze con i media e nello sviluppo di norme di comportamento per la vita online. «Quando guardavamo il cielo qualcuno ci ha dato una mappa per scoprire le costellazioni, anche se potevamo continuare a farlo da soli e sarebbe comunque stato stupefacente – esemplifica la pedagogista – allo stesso modo i giovani di oggi hanno bisogno della nostra capacità di ragionare e riflettere sulle loro pratiche; sono nati, è vero, immersi in qualcosa che a noi sembra distante, ma vanno dati loro gli strumenti per accedervi in modo critico e consapevole». Per farlo è necessario che i videogiochi – che tanto occupano i nostri figli – entrino nel dialogo familiare, come accade con la scuola, lo sport, gli amici. «Il dialogo tra genitori e figli riguardo al videogioco dovrebbe incentrarsi sull’aspetto esperienziale, con domande del tipo “Cosa hai visto?”, “Ti è piaciuto?”, “Hai avuto paura?”», commenta Filippo Zanoli. Il videogioco come esperienza emotiva, quindi. «In questo dialogo i genitori possono anche svelare i propri pregiudizi, attivando al tempo stesso un processo di comprensione», conclude Rosy Nardone.