Camminano incessantemente. Il loro pungolo è la speranza, l’obiettivo è raggiungere la «terra promessa». Sono creature divise fra due luoghi e cercano radici. Fanno parte di un mondo che sta ai margini, alcuni per nascita, altri per vocazione, altri ancora per scelta. Come Roberto Albin, di origine grigionese ma nato e cresciuto a Napoli, rimpatriato in Svizzera dopo che un muro gli è crollato davanti al naso: la sua scelta è stata quella di seguire il suo cuore. «Io sono un pazzo – dice – un pazzo che vuole vivere di sogni». Roberto è attore e musicista. Ha recitato con grandi nomi, come i registi Gabriele Lavia e Mario Martone, non disdegnando il cinema più commerciale, per esempio i Vanzina. Lo snobismo se lo possono permettere in pochi, e Roberto voleva realizzare i suoi sogni, ma quando ha fiutato che iniziava a mettersi male ha cominciato a cercare altro: il famoso, forse un po’ più prosaico ma sicuramente rassicurante «posto fisso». Insegnare, perché no? Ma anche per quello la città partenopea non ha concesso spazi, nonostante le due lauree in Conservatorio.
Queste cose me le racconta al Centro Bethlehem, la mensa sociale delle ACLI a Lugano, una casetta gialla dietro la Resega aperta nel gennaio del 2010, un guscio che accoglie chi non ha un posto dove stare sette giorni su sette dalle 8.30 alle 14.30. Chiunque arrivi può mangiare un pasto completo preparato dalle sapienti mani di un cuoco professionista aiutato da tre aiuti cuochi (persone in assistenza, rifugiati) per 5 franchi, se ce li ha; altrimenti, basta dare una mano, svolgere delle mansioni, e il pasto è servito.
«Fra Martino? Mi viene da piangere solo a nominarlo. È una persona splendida, accoglie tutti» – continua Roberto. In effetti è Fra Martino Dotta l’angelo custode della casetta; passato prima per l’esperienza del Tavolino Magico, il frate media fra il mondo come dovrebbe essere e il mondo come è. «Non possiamo fare i miracoli – dice – ma offriamo a queste persone un pasto e anche la possibilità di lavarsi, lavare i propri panni, fare colazione, cambiarsi, sostare, riposare». C’è chi, però, ha creduto nella sua verità interiore e continua a farlo. A dispetto delle croste di formaggio mangiate nei momenti peggiori, delle notti passate in una topaia prima a Monza e poi a Campione di Italia, della fatica nel trovare un alloggio qui, in Ticino, come persona in assistenza. Questa è la via crucis di Roberto, che a un certo punto, quando era ancora a Napoli, capisce che non può passare la vita ad aspettare la famosa telefonata per fare un film o uno spettacolo teatrale. Decide di spostarsi al nord, passa per l’appunto da Monza e da Campione, arriva a Lugano. Ora vive in un appartamento e cerca di fare il suo lavoro: come attore, è stato ingaggiato alla radio, ma niente di continuativo.
Anche Renato (nome di fantasia) si trova in un limbo: nato e cresciuto a Roma, faceva il montatore di gru, ma poi il lavoro è finito. Adesso vive in bilico fra Italia e Svizzera tedesca, dove il lavoro c’è, ma non sempre dura nel tempo. «Ho una figlia di 18 anni a cui devo passare gli alimenti – spiega – e per questo cerco ogni tanto di tornare a Roma, ma quando perdo il posto di lavoro l’INPS (l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, ndr) non interviene subito con la disoccupazione, passano mesi». Così uno si ritrova a mangiare pane e niente, vivendo al confine fra Italia e Svizzera, attendendo un nuovo incarico Oltralpe. E si appoggia alla casetta gialla dietro la Resega, un luogo che pur nella gravità della situazione non ha nulla di tetro, un nido offerto a chi transita e non ha un luogo fisso, come gli ecuadoregni o i rom, che stanno in gruppo, mangiano, ma preferiscono non parlare.
Parla molto, e piange, invece, Andrei (nome di fantasia), che racconta dei suoi quattro figli in Romania – il più grande ha 14 anni, vivono dalla nonna e lui non li vede da due anni. «Che cosa posso fare lì, cosa sto lì a fare?», mi dice, raccontando una realtà dura, soffocante, dove gli stipendi – per chi ce l’ha, un lavoro – ruotano attorno ai 250 euro, 270 se va bene, e l’affitto costa almeno 150 euro. «Un chilo di olio di girasole all’Iper, in Italia, lo paghi 1.25 euro, da noi costa 1.70; non è possibile vivere così». Piange quando racconta ciò che è avvenuto tanti anni fa, la molla che spinse lui e sua moglie a tentare la fortuna a Ovest: la sua bambina, rincasando dall’asilo, aveva raccontato fra le lacrime che la sua compagna aveva un’arancia, lei no, e che l’altra non aveva voluto offrirgliene nemmeno uno spicchio, nonostante la sincera richiesta.
«Abbiamo capito che dovevamo partire – dice – e siamo arrivati in Italia». Lì è iniziato un altro calvario: lavorare per meno di 1000 euro al mese al Carrefour, perché metà degli introiti se li mangiava l’agenzia che intermediava fra il supermercato e i lavoratori. A un certo punto hanno iniziato anche a non retribuirgli tutte le ore svolte, costringendolo a lasciare tutto. «Mia moglie è ancora in Italia, lavora come badante, io spero di poter fare qualcosa qui, in Svizzera; sono piastrellista di professione, vorrei solo dare la possibilità ai miei figli di studiare, e poi magari raggiungerci». Dice che l’Unione europea è un fallimento, Andrei, e mastica rabbia e fede, insieme; ringrazia Fra Martino e Don Feliciani, che dà a lui e altri un posto dove dormire a Chiasso.
La mensa dei poveri, per esplicita volontà di Fra Martino, non riceve sovvenzioni pubbliche e non le sollecita nemmeno; questo perché vuole poter offrire un conforto a tutti, eliminando le discriminazioni legate al permesso di soggiorno. Una bocca è una bocca, ha fame al di là della burocrazia. Nel 2016 sono stati registrati più di diecimila coperti (più o meno 29 al giorno), sono state distribuite 3600 colazioni, fatti 1200 bucati. Dopo il pasto dei poveri, a me e a Stefano (che si occupa delle fotografie) viene offerta una fetta di torta fresca, alla frutta: una signora la compra tutti i giorni alla Migros e la porta lì. I miracoli non si possono fare, è vero: ma quello che avviene qui, dentro la casa gialla, ci si avvicina molto.