La curiosità ci salva dai pregiudizi

In generale tendiamo a rifiutare selettivamente ciò che non rientra nella nostra visione, anche di fronte a dati e fatti «oggettivi», ma con uno sforzo possiamo cercare di cambiare rotta
/ 16.01.2017
di Stefania Prandi

L’intelligenza non basta per salvarci dai pregiudizi e dalle false verità: ad aiutarci davvero è la curiosità. A questa conclusione è arrivato il team di filosofi, psicologi e registi di documentari, guidato da Dan Kahan, professore al- l’Università di Yale, negli Stati Uniti, che ha realizzato una ricerca sui condizionamenti dell’orientamento politico sul nostro modo di analizzare la realtà. Già altri studi, in passato, hanno dimostrato che non basta avere un buon bagaglio culturale, anche in ambito scientifico, e un alto livello di quoziente intellettivo, per riuscire a liberarsi dai preconcetti che arrivano dall’appartenenza politica.

In generale tendiamo a rifiutare selettivamente ciò che non rientra nella nostra visione, anche di fronte alla citazione di dati e fatti oggettivi, impedendo così agli altri di influenzarci su certi argomenti. Come scrive sul sito della BBC Tom Stafford, ricercatore in Psicologia e Scienza cognitiva all’Università di Sheffield, in Gran Bretagna, autore di saggi sull’irrazionalità e i pregiudizi, «è riduttivo pensare che i preconcetti siano il risultato di un istinto bieco e di pancia». Le persone dotate di un’ottima capacità analitica utilizzano le abilità cognitive per giustificare quello in cui già credono e cercare ragioni per smontare ogni evidenza contraria. 

La ricerca dell’Università di Yale, pubblicata sulla rivista scientifica «Advances in Political Psychology», usa due test per analizzare il modo in cui l’orientamento politico condiziona i nostri ragionamenti. Il primo misura le competenze in ambito scientifico attraverso una serie di domande su fatti e metodi, cercando di stabilire la capacità di ragionamento e di motivazione delle scelte. Il secondo, invece, è più innovativo e cerca di calcolare la curiosità analizzando a quali argomenti e notizie si è interessati, se di sport, scienza, politica, cultura. 

Dal primo test si ottengono risultati prevedibili. Ad esempio, chi si definisce progressista tende a considerare questioni come il cambiamento climatico gravi e rischiose per la salute e il futuro, al contrario di chi si definisce conservatore. Inoltre, i progressisti con più conoscenze scientifiche sono maggiormente preoccupati degli altri con le stesse convinzioni politiche, mentre per i conservatori più istruiti vale l’esatto opposto. 

Dal test della curiosità, restano differenze tra progressisti e conservatori, ma le opinioni cambiano notevolmente, soprattutto su questioni come, ad esempio, le vaccinazioni e il cibo geneticamente modificato. Chi dimostra maggiore curiosità tende a ragionare facendo prevalere i dati e i fatti e non le convinzioni. La curiosità, nello specifico quella di carattere scientifico, che si sviluppa leggendo libri divulgativi, notizie di scienza, guardando documentari, aiuta a sfidare i pregiudizi e a selezionare notizie che contraddicono le credenze che già si hanno, indipendentemente dall’appartenenza politica. Sarebbe quindi auspicabile coltivarla per cercare di avere una visione più complessa e critica della realtà. Ma si può davvero sviluppare oppure è un dote innata? Secondo Kahan, «la curiosità scientifica è una predisposizione, non è qualcosa di effimero che arriva e se ne va. Il punto è capire come estenderla a chi ne è sprovvisto. Il segmento della popolazione che ha questa inclinazione dovrebbe sfruttarla al massimo e fare in modo di trasmetterla agli altri». L’educazione ha sicuramente un peso nel trasmettere la capacità e la voglia di essere curiosi, qualità che secondo diverse analisi si rivela cruciale per districarsi all’interno del bombardamento continuo di informazioni che arrivano da internet e dai social network, per restare sempre vigili e capaci di distinguere i fatti dalle bufale. 

Lisa Fazio, professoressa di Psicologia all’Università di Vanderbilt, a Nashville, nel Tennessee, ha guidato una ricerca che misura quanto l’illusione della verità interagisca con le nostre conoscenze acquisite. Secondo lo studio, la continua esposizione a concetti falsi, sbagliati, faziosi può portarci a farceli sembrare più verosimili. Restiamo comunque capaci di discernere grazie a quello che abbiamo imparato nel passato. La buona notizia è che la tendenza a lasciarci condizionare dalle informazioni sbagliate, quando vengono ripetute, è dovuta a meccanismi che possiamo controllare, se ne prendiamo coscienza. 

Come spiega il ricercatore Tom Stafford sul sito della BBC, la nostra mente tende a usare scorciatoie quando si trova di fronte a questioni complesse, preferendo i ragionamenti più plausibili e immediati. Spesso questa modalità funziona, mentre altre volte ci porta fuori strada. «Dovremmo abituarci a fare un controllo doppio su quello che ci sembra vero, per capire se lo è veramente. Questo è il motivo che porta gli accademici a riempire di referenze i loro testi, in modo che ci sia la possibilità di controllare e non di prendere per buono in modo acritico quello che si legge. Viviamo in un mondo dove i fatti contano ancora, o comunque dovrebbero contare. Se noi stessi ripetiamo cose senza averle verificate, contribuiamo a creare una situazione dove bugie e verità si confondono. Quindi, per favore, controllate prima di ripetere qualcosa». 

Un’indicazione quanto mai attuale considerando le recenti ricerche su come i Millennials, cioè i nati a ridosso del Duemila, interpretano i post che circolano sui social network come Facebook. Uno studio appena pubblicato dalla Graduate School of Education dell’Università di Stanford, in California, indica che la maggior parte degli studenti non è in grado di distinguere tra ciò che è vero e falso in rete. C’è una difficoltà diffusa a riconoscere la differenza tra contenuti comuni e pubblicitari e a capire quali sono le fonti delle notizie. E c’è di più: i ragazzi tendono ad avere una fede cieca nei motori di ricerca come Google, spesso limitandosi a leggere i primi risultati, senza chiedersi se contengano informazioni valide e affidabili.