La crisi della carta stampata

Media – Anche in Ticino i giornali faticano sempre più a sopravvivere, tra le cause il calo delle entrate pubblicitarie e la crescente concorrenza delle notizie online
/ 03.04.2017
di Enrico Morresi

Le ombre della crisi della carta stampata si allungano anche sul Ticino. È uscito allo scoperto «il Caffè», confermando la soppressione di quattro posti di lavoro: due nella tecnica, due nella redazione (Giò Rezzonico, «il Caffè», 19 marzo). Gli altri tacciono, ma si sa, perché se ne occupano le associazioni di categoria, che «laRegione» ha in corso una riorganizzazione che riguarda sia la sede di Bellinzona sia gli uffici di corrispondenza nelle altre località del Cantone, e informazioni confidenziali fanno stato di disavanzi d’esercizio per il 2016 sia al «Corriere del Ticino» sia al «Giornale del Popolo». Per il «Corriere» garantisce il «tesoretto» che la fondazione proprietaria ha accumulato durante i grassi anni Novanta dello scorso secolo e i primissimi del nuovo. Quanto al «Giornale del Popolo», la Diocesi ne è proprietaria solo per il 50 per cento più un’azione: è il limite per cui si può ancora dire che il giornale le appartiene.

La spiegazione di questo generale peggioramento della situazione finanziaria delle tre testate è una sola: il calo delle entrate pubblicitarie («praticamente dimezzate dal 2009 a oggi», precisa Giò Rezzonico). Nei singoli casi vi possono essere situazioni particolari di disagio («il Caffè», per esempio, è penalizzato dal fatto di essere distribuito gratis e perciò di reggersi solo sulle entrate pubblicitarie: gli mancano quelle degli abbonati): tutte però soffrono del rapporto deludente che si è instaurato con l’informazione online, da quando chiunque è in grado di ricevere l’essenziale dell’informazione, «cliccando» sul sito Internet delle testate. Le cifre relative al Ticino non si conoscono, ma quelle dell’editoria nazionale sì. Il 40% del pubblico, sondato da un’inchiesta condotta dall’università di Zurigo (Qualität der Medien, Jahrbuch 2016), preferisce informarsi in rete piuttosto che sulla carta stampata. Ma mentre gli abbonati pagano l’abbonamento e chi compra il giornale all’edicola paga la copia che compra, più della metà dei consumatori di notizie online non spende un centesimo. I costi per i giornali, intanto, sono esplosi. Nessuno volendo rinunciare ad acquisire nuovi lettori grazie al nuovo mezzo, tutti hanno creato una sotto-redazione online, che ovviamente lavora anche il sabato (se il giornale la domenica non esce) e anche di notte perché le notizie non si fermano mai. L’Annuario citato dà la consistenza di queste redazioni per i giornali ticinesi: sei giornalisti addetti alla redazione online al «Corriere del Ticino» (cdt.ch), quattro alla «Regione» (laregione.ch) e due al «Giornale del Popolo» (gdp.ch).

Si sperava che i siti dei giornali attirassero quel tanto di pubblicità da compensare almeno la maggior spesa. Ma non è stato così. La stampa svizzera nel 2016 ha introitato 1,1 miliardi di franchi dalla pubblicità cartacea e soltanto 129,5 milioni dal digitale. E poiché, dal 2001, le tirature sono calate del 39%, persino testate di qualità come «L’Hébdo» e «Le Temps» sono andate in crisi: il primo ha cessato le pubblicazioni, il secondo ha dovuto accettare una cura dimagrante. È vero che alcuni grandi gruppi, come Tamedia e Ringier, chiudono sempre i conti in attivo: ma questo si deve alla loro capacità di diversificare il tipo di pubblicazioni su scala europea, possibile solo a queste grandi imprese. In ogni caso, il numero degli abbonati ai media scritti in Svizzera è pure calato del 39% dall’inizio del nuovo secolo e niente fa prevedere che sia vicina un’inversione della tendenza.

Possiamo consolarci guardando quel che succede altrove, per esempio in Italia? Anche nel Belpaese tra il 2011 e il 2015 le copie vendute ogni anno dei quotidiani cartacei sono calate del 36%, da 4,8 a 3,1 milioni di unità (HomeMediatech.ch, 13 gennaio). Le tirature giornaliere stanno letteralmente precipitando (tra ottobre 2015 e novembre 2016: da 308’087 a 249’662 copie il «Corriere della Sera», da 262’053 a 214’880 «la Repubblica», da 175’698 a 149’698 «La Stampa», primaonline, 28 marzo 2017). La pubblicità sui quotidiani è calata nel 2016 di un altro 5,7% (Osservatorio Stampa FCP, 6 febbraio) e la condizione dei giornalisti è drammatica: solo una percentuale di anziani è assunta con contratto fisso, la maggior parte è pagata a prestazione – una drammatica vicinanza a una condizione di sfruttamento. Su una situazione già tanto precaria è calata la notizia che persino «Il Sole/24 Ore» – come organo della Confindustria, insegna alle imprese come gestirsi! – ha truffato gli organismi di controllo delle tirature. Il direttore è stato messo in congedo provvisorio senza paga, la magistratura indaga e finirà di sicuro a condanne penali.

La prima reazione degli editori svizzeri è parsa più vicina al panico che alla riflessione calma e ponderata. Alcuni si spingono fino a sostenere l’iniziativa «No Billag» accusando la SSR di far loro concorrenza con i soldi del canone. Ma bisogna distinguere. Stephan Russ-Mohl ha ragione quando considera «inverecondo» (wenig zimperlich) il comportamento della RSI, che pratica il dumping sulla pubblicità nei confronti dei giornali (Jahrbuch, cit., p. 11), ma rimproverare la SSR perché si paga il lusso di dotare di dozzine di addetti la redazione online è assurdo: anche l’online è servizio pubblico, e non è privando di risorse la SSR che si sanano le finanze dei giornali.

La stampa deve anzitutto trovare in sé la forza di reagire, perché il problema è comune a tutti i giornali, in tutto il mondo. I proventi della diffusione di «Le Monde», per esempio, sono per il 79% dovuti al cartaceo e solo per il 21% all’online, ma il giornale stupisce per le innovazioni che introduce, settimana dopo settimana, e regolarmente spiega e giustifica agli utenti (Groupe Le Monde: une transformation en bonne voie, 28 gennaio 2013). I lettori apprezzano… e seguono, magari tempestando di commenti, ma seguono! Solo pochissimi, come il «Wall Street Journal» riescono a finanziarsi a partire dalle informazioni messe in rete. Si danno anche soluzioni d’avanguardia, come il gruppo del «Tages-Anzeiger»/«20 Minuti», che ha costituito un gruppo redazionale specializzato nelle ricerche «difficili». Non solo dunque i digitali puri, come il sito «Médiapart» fondato da un reduce di «Le Monde»: Edwy Plenel, o un satirico come «le Canard enchaîné», che sono in attivo.

Una proposta che in Svizzera trova gli editori contrari è l’aiuto pubblico alla stampa. Ma la loro è una posizione assurda. Non si vede come la logica del servizio pubblico, adottata per la SSR e per le private radiotelevisive, non debba eventualmente valere anche per una scena linguisticamente e culturalmente frazionata (e, di più, in pericolo) come quella dei giornali. Non è una soluzione «svizzera», semmai, quella in cui i grandi gruppi mediatici (NZZ, «Tages-Anzeiger») divorano i più piccoli. Cantoni come Lucerna e San Gallo non hanno più un quotidiano di proprietà regionale: non è un impoverimento che contraddice il federalismo? L’idea dell’aiuto pubblico, oggi sostenuta anche dai rappresentanti dei giornalisti (il presidente del sindacato, Christian Campiche, intervistato dal «Courrier» del 20 marzo), dovrebbe essere discussa senza pregiudizi. Se si difende l’autonomia redazionale delle stazioni di radio e televisione, perché escludere che quel valore potrebbe essere difeso anche nei giornali che ricevessero un aiuto pubblico?