Sguardi sospesi

Gli sguardi sospesi del titolo sono quelli dei richiedenti l’asilo in transito o che tuttora risiedono nelle strutture d’accoglienza in Ticino colti dal fotografo Stefano Spinelli. Questi occhi, protagonisti dell’esposizione inaugurata sabato a Casa Cantoni a Cabbio, sono testimoni di storie drammatiche e profonde sofferenze ma anche di una straordinaria voglia di vivere. Il progetto, scrivono gli organizzatori dell’esposizione, è dedicato a tutti i migranti, in particolare alla popolazione dell’Afghanistan confrontata a tragedie indicibili e si inserisce nell’ambito della mostra Pezzi di frontiera. Geografie e immaginario del confine nata dalla collaborazione tra il Museo etnografico della Valle di Muggio, il Centro federale d’asilo di Novazzano-Balerna e la Segreteria di Stato della migrazione.

Dove e quando
Stefano Spinelli. Di sguardi sospesi. Ex scuola elementare (Casa Cantoni), Cabbio Fino al 6 novembre 2022. Orari: ma-do 14.00-17.00.


Integrazione e nostalgia

Testimonianza – La storia di un ragazzo afghano di 21 anni, giunto in Ticino alla fine del 2015 come minorenne non accompagnato, che ora ha concluso il suo apprendistato e vive autonomamente
/ 11.07.2022
di Fabio Dozio

Il giovane che si racconta è arrivato in Ticino minorenne, dall’Afghanistan. Ha concluso con successo la scuola media e ora l’apprendistato di decoratore con ottimi voti. Sul lavoro è stimato e molto considerato. Però è ancora in attesa, dopo sei anni, di un permesso di asilo. Infatti, ha solo il permesso F che offre una «ammissione provvisoria». Alle autorità svizzere non può essere sfuggito quanto successo il 15 agosto scorso in Afghanistan, dove i talebani sono tornati al potere dopo la partenza dei militari statunitensi. Nel frattempo, dalla fine di febbraio sono giunti in Svizzera decine di migliaia di profughi ucraini, in fuga dal loro Paese martoriato dall’invasione russa. A questi rifugiati la Svizzera concede il permesso speciale S «per persone bisognose di protezione». Giusto e necessario, ma perché si pratica una politica dell’accoglienza a due velocità, tra profughi di serie A e di serie B? È una politica giusta?

Finalmente la scuola è finita, evviva. È stata dura in queste ultime settimane: esami, esami e ancora esami. Però è andato tutto bene. Ho concluso il tirocinio. All’esame pratico ho ricevuto molti complimenti dai professori. Ma anche il lavoro di approfondimento del corso di cultura generale è andato alla grande. Fra qualche giorno avremo i risultati, ma la cerimonia di consegna dei diplomi sarà ad agosto. Ora mi tocca cercare un appartamentino, perché comincerò a guadagnare e dovrò lasciare la Croce Rossa e rendermi indipendente. Certo, non mancano le preoccupazioni, ma guardo al mio futuro con ottimismo. A 14 anni mi sono trovato ad «abbandonare» la mia cultura d’origine e a imparare nuove usanze e regole in un paese che non conoscevo. Lo spirito di adattamento è quindi molto importante, sia per vivere bene in un paese che non è il proprio, sia per convivere con culture diverse. Questo però non ha significato perdere la mia identità di origine, ma semplicemente adeguarla al nuovo contesto in cui mi sono trovato. Sono nato a Kabul, ma non conosco la mia vera data di nascita. Non sono nato in ospedale, ma a casa e la mia data di nascita non è stata scritta da nessuna parte. Quella che figura come mia data di nascita, il 21 marzo, mi è stata messa sul permesso di soggiorno da un doganiere quando sono arrivato in Svizzera. Il 21 marzo è una data importante perché coincide con l’inizio della primavera e perché nella religione islamica corrisponde al capodanno.

Sono cresciuto nel Maidan Wardak, al centro dell’Afghanistan. È una regione di montagna molto pericolosa perché abitata da molti talebani. Quando vivevo lì facevo il sarto e il meccanico e aiutavo mio padre anche facendo il pastore. Non andavo a scuola perché i talebani non lo permettevano. Ho imparato a leggere e scrivere solo grazie allo studio del Corano.

Ho deciso di partire assieme a un gruppo di amici. Sono partito un venerdì, da noi giorno di festa, quindi i negozi sono chiusi. I miei allora vivevano a Kabul e mio padre aveva un negozio. Mio papà non lavorava ed era a casa. Sono andato da lui e gli ho detto che sarei partito quello stesso giorno. Lui ha detto di no. Allora ho chiesto a mia madre di convincerlo. Mia madre è riuscita a convincerlo che era la scelta giusta per me e per il mio futuro. Abbiamo preparato assieme le cose del viaggio, due paia di scarpe, due pantaloni e il cibo. Avevo anche un po’ di soldi che mi ha dato mio papà. Lui ha pagato i passatori che ci hanno accompagnati fino in Iran, circa 800 dollari. Ha venduto dei terreni per avere questi soldi. Ho impiegato dodici giorni per raggiungere l’Iran, in bus fino al confine e poi a piedi sulle montagne. In Iran ho lavorato tre settimane come sarto. La mia idea iniziale era di rimanere lì per studiare, ma poi ho visto che gli afghani erano maltrattati, gli iraniani erano razzisti e quindi ho deciso di proseguire verso l’Europa. In Iran ho incontrato la cugina di mia madre con la sua famiglia e quindi mi sono unito a loro per il viaggio verso la Turchia. Un viaggio di una settimana a piedi e dopo la Turchia la Grecia, in parte in bus, ma anche su un gommone via mare. Sessanta persone tutte su un gommone, con molti che non sapevano nuotare. Dopo essere rimasti una settimana in Grecia, abbiamo preso un treno per la Macedonia e da lì, in qualche settimana, abbiamo raggiunto l’Austria. Dall’Austria abbiamo preso di nuovo un treno verso la Svizzera e siamo giunti a Buchs, Canton San Gallo: era la fine del 2015. Lì mi sono separato dalla famiglia di mia cugina, loro volevano andare in Belgio, mentre io sono rimasto in Svizzera, dove al centro di registrazione ho chiesto asilo. Da Buchs mi hanno mandato a Biasca e infine sono arrivato a Paradiso, al Foyer della Croce Rossa.

Nel gennaio del 2016 ho iniziato la scuola media nel Luganese. Non ero l’unico ragazzo minorenne straniero, c’erano altri tre afghani, due somali e un albanese. Per me era tutto nuovissimo. Non avevo mai visto una scuola, solo quella della moschea del Maidan Wardak, ma lì non c’erano ragazze. Per me era stranissimo stare anche con delle ragazze. In più non sapevo neanche una parola di italiano. I miei compagni di classe comunque erano simpatici, mi hanno sempre trattato bene. La cosa più difficile per me è sempre stata la lingua italiana: imparare la grammatica, i vocaboli, la pronuncia, l’alfabeto, completamente diverso da quello persiano, che era l’unico che io conoscevo. Ho studiato molto, mi sono impegnato tanto ma sono anche stato aiutato da maestri che mi hanno permesso di ottenere la licenza di scuola media. Per noi ragazzi stranieri è molto importante avere un posto di lavoro, altrimenti non ti danno il permesso di restare.

Mi sarebbe piaciuto fare l’architetto o il disegnatore. Durante l’ultimo anno di scuola media ho fatto diversi stage e ho scoperto, da un architetto, che sono molto bravo a disegnare. Alla fine ho trovato un posto di apprendista come decoratore e nel settembre del 2018 ho iniziato il mio apprendistato e sono andato a scuola due giorni alla settimana in questi ultimi anni. Ora ho finito la scuola e l’apprendistato e il mio datore di lavoro mi assume come decoratore.

Mio padre è contento, anche se lui vorrebbe che io mi mettessi in proprio e lavorassi da indipendente. Non immagina che le cose non sono facili anche se si studia e ci si impegna molto. Con la mia famiglia ho contatti regolari grazie a Whatsapp, ma dal 15 agosto, quando i talebani hanno ripreso il potere, in Afghanistan è tutto più difficile. I miei volevano scappare, ma non sono riusciti. Le mie sorelle sono costrette in casa e non possono più studiare. È una follia la situazione per chi è rimasto, anche se ora nessuno parla più della tragica situazione dell’Afghanistan. I giovani laggiù stanno perdendo gli anni migliori, dove potrebbero studiare e crearsi la loro vita. Uscire di casa è pericoloso, quindi alle persone non resta altra scelta che rimanere a casa e aspettare che la situazione migliori. Nelle scuole mancano i maestri perché hanno paura di subire violenze. Le etnie più deboli del paese, come il mio popolo, gli Hazara, sono nuovamente sottomesse ai talebani come nel passato. Siamo tornati indietro nel tempo.

In Ticino sto bene, ma mi mancano i mei amici. Alcuni di loro, che sono rimasti a Kabul, si sono sposati e lavorano. Anch’io vorrei trovare una ragazza del mio paese. Le ragazze di qui fanno soffrire: pretendono troppo e ti lasciano alla prima cosa che non funziona. Io sono stato molto innamorato di una mia compagna di classe delle medie, ma forse ho esagerato con lei, volevo che fossimo subito fidanzati, e lei invece mi diceva che dovevamo conoscerci adagio adagio. Oggi penso che aveva ragione lei. Dopo ho avuto qualche ragazza, ma nessuna storia seria. Io però adesso non vorrei essere sposato: ho appena finito la scuola e l’apprendistato, devo pensare al lavoro e anche alla mia famiglia a Kabul. Non vorrei dovermi occupare anche di una moglie.

Come vedo il mio futuro? Qui sto bene, ma il mio sogno è quello di tornare un giorno nel mio Paese, libero dalle guerre, e di poter rivedere tutta la mia famiglia. Ora avrò il mio appartamentino. So cucinare, tenere pulita la casa, ho fatto il sarto, il meccanico, ho venduto gelati, ho sempre lavorato con mio papà e se sono sopravvissuto al viaggio da Kabul al Ticino ce la farò anche questa volta. Però mi mancano i miei amici di sempre, la mia famiglia, la mia gente, la mia lingua, il cibo, le feste. Adesso sento anche molta pressione da parte della mia famiglia rimasta in Afghanistan. Laggiù c’è il caos, loro non lavorano, fanno fatica a trovare da mangiare e io sento il peso di dover portare avanti la mia vita qui, ma anche di aiutare loro laggiù.