«Sapevamo numeri, abbiamo trovato persone», mi dice Yvan, 15 anni, maglia col cappuccio, sguardo da saggio. Lui e i suoi compagni hanno studiato, letto, si sono documentati, perché un viaggio così, lo si prepara con cura. E la loro docente di italiano, Sultan Filimci, prima di proporlo come attività privata estiva, ha lavorato con tutta la classe, per mesi. Poi ha detto: perché non andare in Sicilia anche noi come quel giornalista in quel documentario? Tutti volevano, però chi aveva un impegno, chi un altro, e sono partiti in sei. Yvan è di un’altra classe, ma si è aggiunto. Tre docenti e sei ragazzi. Alloggiati a casa di due locarnesi che hanno stabilito la loro vita laggiù, sotto l’Etna e vicino al più grande Centro di accoglienza per richiedenti l’asilo d’Italia: il C.A.R.A di Mineo.
Siamo al Grottino Ticinese, a Bellinzona, proprio vicino alla scuola media che hanno appena terminato. L’anno prossimo andranno al Liceo, alla Commercio, a fare un apprendistato, ma non siamo lì per parlare di questo, mi vogliono raccontare il viaggio che hanno intrapreso quest’estate, a inizio luglio. Meno di una settimana che li ha resi diversi, mi dicono. «Sembra che il mondo lo puoi conoscere grazie alla televisione, a internet. Ma non è così: quando vedi le cose le scopri davvero e le capisci molto meglio», è una delle riflessioni che mettono sul tavolo.
In realtà tutto è partito da Elyas, un compagno arrivato qualche anno fa dall’Eritrea. Era un minore non accompagnato: vuol dire che quando gli chiedevi «Dov’è tua mamma?» ti rispondeva: «In prigione». È stato in Libia, ed è noto che la Libia, per una persona che sta migrando, significa l’inferno. È arrivato in Ticino da solo e non parlava italiano. I compagni lo hanno aiutato a imparare e hanno cominciato a fargli domande. Lui ha raccontato e loro hanno trascritto domande, risposte, canzoni. Ne è nato uno spettacolo con accompagnamento musicale, che hanno portato in giro, nelle altre sedi scolastiche. Poi Sultan Filimci e altri docenti di italiano hanno trovato un libro Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella e lo hanno letto in classe; infine è venuto Stefano Ferrari, regista Rsi, a presentare il suo documentario Lo stesso mare. «Senza avere niente contro le vacanze in spiaggia sotto l’ombrellone, ho pensato che far fare un vero viaggio ai miei studenti sarebbe stato un grande regalo, per loro e per me», racconta l’insegnante con entusiasmo. «Abbiamo ripercorso i passi di Stefano a modo nostro, integrando anche momenti di svago come visite al vulcano, panzerotti e granite alla pesca. Però abbiamo passato attimi indimenticabili insieme a persone diverse da noi, che ci sono sembrate più vicine».
Il primo incontro con il diverso, a dire il vero, è stato con Enos e Margherita Nolli, i due locarnesi. «Sono molto legati alla religione; per esempio pregano sempre prima di mangiare», mi spiegano i ragazzi. «Noi abbiamo pregato con loro, anche se tra di noi c’è chi ha un’altra religione, chi non ne ha nessuna, chi non ha mai pensato che si può dire grazie per il cibo in quel modo. Ma lo scopo del nostro viaggio era anche questo: accettare le altre culture, unirci a quello che incontravamo pur restando noi stessi». Pastore protestante, insieme alla moglie Margherita, Enos è il responsabile di Gioventù in Missione, associazione italiana che presta aiuto ai bisognosi. E infatti casa loro è grande abbastanza per accogliere tutti, ospiti di passaggio, classi, e anche i nostri giovani reporter di Bellinzona. Per loro i Nolli hanno organizzato incontri con un gruppo di uomini del Centro di accoglienza di Mineo e con una donna nigeriana che ora lavora come badante in città.
«Pensavo che i migranti sarebbero stati più chiusi con noi, invece ci hanno raccontato la loro vita e alla fine abbiamo cantato e ballato insieme; non c’erano più né africani né europei, solo un grande noi», mi racconta Francesco. «Gli abbiamo chiesto varie cose sulla loro famiglia, sulle condizioni di vita che hanno lasciato e sulle speranze per il futuro; ma anche loro ci facevano domande su di noi, sul posto dove abitavamo. C’era un docente di storia che avrebbe voluto venire con noi e insegnare nella nostra scuola». Qualcuno, un uomo arrivato dal Ghana, ha intonato un canto religioso e gli altri lo hanno seguito; chi non conosceva le parole batteva le mani. Poi Sultan Filimci ha fatto una mini lezione di italiano per insegnare a quegli uomini le parole più importanti (i colloqui si erano svolti in francese e inglese), si sono fotografati a vicenda e alla fine si sono salutati. «Quello che ne è risultato è che molti sono partiti perché avevano fame e alcuni addirittura mancavano di acqua potabile; abbiamo scoperto che sono partiti pur sapendo cosa li aspettava; che sono partiti per salvare o dare una mano alle loro famiglie; che volevano magari solo andare nel nord Africa a cercare lavoro ma poi sono finiti nelle maglie dei trafficanti di esseri umani, in Libia. Ci hanno detto che per sfuggire alla Libia avrebbero fatto qualsiasi cosa, anche attraversare a nuoto il Mediterraneo». E un viaggio sul barcone non è poi molto diverso.
Il giorno seguente i ragazzi hanno parlato con una donna, che è partita dal suo paese, la Nigeria, è arrivata in Italia e ora fa la badante. Si è dichiarata felice. «Non ho mai visto i miei studenti esprimersi così bene come dopo quegli incontri», afferma l’insegnante. «Li ho filmati subito, chiedendo loro a caldo cosa avevano provato. Avevano gli occhi lucidi e dicevano che si sentivano fortunati, perché anche se qualcuno ha una famiglia un po’ sgretolata, è pur sempre a conoscenza di dove si trovino suo padre, sua madre e i suoi fratelli; hanno parlato di muri che sono crollati e di sorrisi impensabili, in mezzo a tanto dolore. Davvero, non li ho mai sentiti parlare in modo così preciso, fluido e partecipe. Ho capito che avevo fatto la cosa giusta, li avevo portati a vedere un pezzo di realtà e loro lo stavano raccontando, come piccoli giornalisti che prendono appunti e rielaborano ciò che hanno scoperto». Come docente, spiega, sentiva che doveva affrontare uno dei grandi temi di attualità più complessi, in grado di dividere profondamente i partiti politici. Leggere e approfondire è stato sufficiente, ma per andare oltre bisognava spostarsi di persona per guardare uno spicchio microscopico della realtà, ma che fa la differenza.
«La cosa che mi ha sorpreso di più? Provare le emozioni che ho provato», mi dice Shana, che non esita a definirsi «diversa da prima e più cosciente, dopo questa esperienza in cui abbiamo visto quello che non potevamo immaginare». Prima di ripartire hanno fatto il bagno vicino a Taormina, sono saliti sull’Etna e hanno intervistato un’assistente sociale che lavora per Oxfam, una Ong che opera sul territorio per combattere la povertà. «Quando siamo atterrati a Milano e poi siamo rientrati a casa, era strano vedere di nuovo le nostre montagne invece del vulcano, pagare una pizza 20 franchi invece che 5 euro e bere granite “pessime”», ridono, condividendo un ricordo forte, che solo loro, a questo tavolo, hanno vissuto.