Il valore della terra

Cambiamenti climatici - Secondo articolo dedicato a come adattarsi e mitigare le conseguenze dei cambiamenti climatici sul pianeta Terra
/ 20.05.2019
di Loris Fedele

Ricordo una vecchia pubblicità: non so più cosa promuoveva, ma mostrava una mano rugosa di un contadino che stingeva un pugno di terriccio e, mentre lo faceva, affermava che «la cosa più preziosa della Terra è la terra». Mi colpì e mi diede da pensare. Prestiamo poca attenzione al suolo, forse lo sottovalutiamo. Per noi, fondamentale è l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo. Ma in tutto questo, c’entra anche la terra, intesa come suolo. 

Gran parte del nostro cibo dipende da essa, che è anche uno spazio vitale, che filtra e trattiene l’acqua, immagazzina il carbonio ed è una fonte di biodiversità. Si stima che almeno un quarto della biodiversità mondiale risieda nel sottosuolo e favorisca al tempo stesso la biodiversità in superficie. È importantissimo mantenerlo sano e produttivo. 

Nel 2015, che fu per l’ONU l’anno internazionale dei suoli, la FAO (Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura) denunciò che un terzo dei terreni mondiali risultava degradato a causa dell’erosione, della compattazione, della salinizzazione, dell’acidificazione, dell’impermeabilizzazione e di svariati inquinamenti dovuti a poco sostenibili gestioni dei terreni stessi. I cambiamenti climatici e la forte urbanizzazione stanno dando un importante contributo al degrado dei suoli, ingigantendo le normali fenomenologie. Se non venissero adottati nuovi approcci per mitigarne gli effetti – sono sempre affermazioni della FAO – con le pressioni umane in continua crescita, l’ammontare dei terreni arabili e produttivi nel 2050 si ridurrà a un quarto di quello che era solo sessant’anni or sono. 

Uno studio universitario inglese da poco pubblicato su «Nature» ha rincarato la dose dicendo che nessun Paese al mondo oggi soddisfa i bisogni fondamentali dei suoi cittadini mantenendo lo sfruttamento delle risorse a un livello sostenibile a livello ambientale. Come ridurre gli effetti e l’impatto dell’attività umana, parlando di suoli? L’adattamento, perché di questa strategia si tratta, va proposto e sostenuto a seconda dei luoghi. In molti Paesi i periodi di siccità e il degrado del suolo rappresentano una minaccia per la sicurezza alimentare, innescando una serie di problemi anche sociali. 

L’aiuto allo sviluppo della Confederazione svizzera è cofondatore di un gruppo di ricerca internazionale (il CGIAR) che si preoccupa di rendere più resilienti gli ecosistemi, con progetti mirati. Nell’Africa meridionale vengono provate varietà di mais in grado di resistere alla siccità, già testate in Messico. La siccità è una condizione di deficit idrico temporaneo, alla quale con misure adeguate ci si può adattare. Se le misure adottate non bastano, oppure se intervengono fenomeni esterni di grande portata che fanno diventare permanente il deficit idrico, allora la siccità diventa aridità. A questo punto i terreni non possono più ospitare organismi viventi, vegetali e animali, con una conseguente perdita di fertilità e capacità produttiva: siamo al processo noto come desertificazione. 

Purtroppo il 70 per cento circa delle cosiddette terre aride si trova nei Paesi a basso tasso di sviluppo, che quindi vanno aiutati. In questo caso le azioni di intervento possono avere un carattere temporaneo, ma per essere efficaci devono durare nel tempo. Nel Centro America, per esempio, si è rimarcato che il rendimento della produzione del caffè, della varietà Arabica, quella che ha bisogno di maggior quantitativo d’acqua, sta lentamente ma costantemente riducendosi a causa della diminuzione delle precipitazioni indotta dai cambiamenti climatici. È un fenomeno ancora poco evidente, ma inequivocabile. 

Una grande organizzazione non governativa internazionale, con sede negli USA, sta intervenendo per convincere i coltivatori a non sprecare acqua in più per mantenere a tutti i costi l’Arabica, ma piuttosto di rivolgersi ad altre varietà o addirittura di piantare nuove colture, per esempio alberi da frutto, meno sensibili all’inaridimento del suolo. Si passerebbe così in modo graduale a ecosistemi più sostenibili, evitando di ritrovarsi improvvisamente davanti a situazioni catastrofiche per una popolazione locale che non ha saputo guardare lontano. Certo, in questo caso come in molti altri, la motivazione e la collaborazione della popolazione è indispensabile. 

Negli scorsi decenni un lodevole programma come il Great Green Wall dell’Unione africana, una fascia verde di alberi da piantare attraverso l’Africa, soprattutto nel Sahel e nella zona sub-sahariana, ottenne poco successo perché gli indigeni non furono ben coinvolti e motivati. Erano venti gli Stati africani implicati, ma l’idea iniziale si frammentò in un mosaico di interventi poco coordinati. Quel programma, oltre a un adattamento di fronte alla desertificazione, sarebbe stato un contributo alla mitigazione del cambiamento climatico. Non ha dato i risultati sperati. 

Sempre nel continente nero, anche Stati più sviluppati, come il Sud Africa, sembrano non prestare sufficiente attenzione agli equilibri ecologici. Nell’estate 2018 una prolungata siccità compromise la falda freatica. Per parecchie settimane, Città del Capo si trovò a dover adottare drastiche misure urgenti. Persino negli alberghi mancava l’acqua e si faceva scendere dai rubinetti un gel per lavarsi le mani, la doccia era bloccata a due minuti con l’obbligo di recuperare l’acqua usata, che sarebbe poi finita per l’irrigazione. Queste condizioni ambientali problematiche sono destinate a ripetersi sempre più spesso e quindi l’uso parsimonioso delle risorse è diventato un imperativo categorico. 

Sempre in Sud Africa si sta verificando un altro fenomeno preoccupante. Sui terreni già poveri d’acqua si sono insediate delle piante invasive, degli arbusti che hanno colonizzato vaste aree rubando l’acqua alle piante autoctone e facendole morire. Si stanno approntando programmi occupazionali per estirpare i cespugli invasivi. Poi bisognerà pensare a ricostruire degli ecosistemi adatti alle mutate condizioni climatiche. A questo riguardo vi è da dire che in molte parti del mondo si è confrontati con vere e proprie invasioni di specie aliene. Queste specie sono un importante fattore di perdita della biodiversità e hanno un impatto significativo sul funzionamento degli ecosistemi: quando ci si accorge del danno può essere tardi. 

Un altro fenomeno che colpisce le terre è quello dell’erosione dei suoli. Nelle zone tropicali costiere, dove i fiumi in piena o i mari scavano il terreno e lo fanno franare, la misura di adattamento suggerita è quella di piantare mangrovie, in grado di trattenere il terreno e di creare un habitat adatto all’allevamento di gamberetti e alla riproduzione di alcuni pesci.

Rimboschimento, risanamento delle rive, introduzione di nuove varietà resilienti, adattamento di nuove tecniche agricole: appare chiaro che alcune soluzioni esistono, ma certamente hanno bisogno di parecchi anni per dare risultati. Parallelamente il riscaldamento globale aumenta: bisogna tenerne conto e fare le buone scelte.