«Proprio brava questa presentatrice. Chi è?». «Sai che non lo so? Adesso chiedo al produttore… È Sandy Altermatt. Lavora in radio». «E non la conosci?». La conosco, ma non l’ho mai vista dal vivo. In radio siamo… voci.
Brandelli di un dialogo dai toni sommessi in una sala anfiteatrale del Palazzo dei congressi di Lugano. È il dicembre 2009 ed è in corso la cerimonia di consegna dei diplomi della SUPSI (Scuola universitaria professionale). A salire sul palco, per la prima volta, anche gli allievi dell’Accademia Teatro Dimitri di Verscio. E lì, sul palco, c’è proprio Sandy Altermatt, quella signora dal sorriso da bimba che il pubblico dell’Estival Jazz ha imparato a conoscere come l’interlocutrice del dopo concerto o come la ragazza che si trovò a presentare il Festival del film di Locarno. Sì, proprio lei che – nessuno sa come faccia – riesce a veicolare il suo sorriso anche via radio. Già, la radio…
Che cos’è per Sandy la radio?
Il mio sogno, ma… non l’ho capito subito. Adesso però, guardandomi indietro, capisco che tutto quello che ho fatto – e magari anche quello che non ho fatto – ha concorso a portarmi lì, dietro a un microfono, a parlare con ogni persona che è all’ascolto in quel preciso momento e alla quale vorrei portare almeno un po’ di gioia.
Visto che non hai capito subito che la radio era quel che volevi fare, come ci sei arrivata a capirlo?
Oggi direi: saltando di palo in frasca fino al 12 settembre del 2001. Fai il conto che la mia famiglia – papà, mamma e sorella – era una famiglia di viaggiatori e che io sono cresciuta trilingue: tedesco (il papà), inglese (la mamma) e italiano (la scuola). Giunta in quarta ginnasio sono stata bocciata. Non dimenticherò mai quel giorno d’inizio estate. Ero, a Viganello, sul ponticello della scuola con la mia amica di sempre – Angela. Ci viene incontro il direttore, Lauro Degiorgi. «Tu – mi dice guardandomi – vieni con me». È stata la prima volta che Angela e io ci siamo separate. Non starò a raccontarti tutti i dettagli. Ho rifatto la quarta (che l’anno dopo sarebbe diventata media) e poi mi sono iscritta alla Commercio di Massagno. Lì sono sopravvissuta per quattro mesi. No. Non faceva per me. Mio padre mi aiutò, ma pose una condizione: scegliti una scuola che ti porti a conseguire un diploma. E così feci. Dopo la commercio ho ufficializzato con altrettanti diplomi di lingue il mio tedesco, l’inglese e il francese (che avevo imparato a scuola) e poi, con l’italiano come lingua madre, ho conseguito il diploma federale di telefonista. Ma, visto che ho sempre dovuto mantenermi e amo viaggiare, mi sono cercata un lavoro e, per due anni, ho lavorato alla Crossair.
La radio quando arriva?
Per caso, intorno al 1994. Una novità che arriva sempre grazie alle lingue (che nel frattempo erano diventate 5 in quanto, dopo un soggiorno di sei mesi in Guatemala, si era aggiunto lo spagnolo). È a Rete3 che ho iniziato ed è qui che, piano piano, ho imparato le dinamiche, le regole e i trucchi della radio. Però avevo mille cose in testa. Volevo capire, imparare, viaggiare. La mamma del mio ex mi disse: «Se non lo fai adesso non lo farai più» e così ho chiesto alla RSI un congedo di un anno. Il 5 gennaio 2000, dopo il Capodanno che segnò il cambio di secolo in piazza della Riforma, sono partita alla volta di New York. Obiettivo: frequentare il Lee Strasberg Theatre and Film Institute, il fratellino dell’Actor Studio (anche perché, senza l’attestato di una scuola, non avrei potuto restare per un anno).
Tu e New York. Una storia d’amore durata quanto?
No, aspetta. Non è stato amore tra me e New York. Non lo è stato quando ci sono stata la prima volta, nel 1988. Non lo è stato quando ci sono tornata 12 anni dopo. Vivevo all’East Village e ho sempre avuto l’impressione di una città abitata da gente sola. Però volevo mettermi alla prova. Il Lee Strasberg Theatre è stato, per me, una delusione, ma in compenso ho conosciuto Michel Comte, fotografo svizzero con il quale – e per il quale – ho lavorato, a New York, fino al settembre del 2001.
Mi stai dicendo che eri a New York l’11 settembre?
Sì, ero a New York e, probabilmente, quell’11 settembre ha segnato anche la svolta nella mia vita. Non tanto il giorno degli attacchi e del crollo delle torri gemelle, ma il giorno successivo, il 12 settembre. Sì, è stato proprio il 12 settembre. Per le vie di New York le auto circolavano con bandiere a stelle e strisce e stendardi con la scritta Revenge (vendetta). Ho avuto, in quel momento, un profondo senso di disagio. Ero disorientata ed è in quel momento che ho capito cosa significasse la neutralità svizzera. E così ho deciso di rientrare in Svizzera. Arrivata allo studio di Michel, gli ho detto: «Io torno a casa» e lui mi ha risposto: «Torno anch’io». Un paio di mesi dopo, il tempo di riaprire gli aeroporti, ho lasciato New York e sono andata a Zurigo, dove viveva mio papà, e ho aperto/allestito, lo studio fotografico di Michel Comte. Lucia Vietri, la sua produttrice, quando le ho comunicato che avevo finito e tornavo a Lugano mi ha detto: «No, no. Non puoi lasciarci. Tu vieni a lavorare con me a Parigi». Ci sono andata. Sono restata lì per cinque mesi, ma… lo stipendio non copriva neppure i costi dell’affitto e così, squattrinata e libera sono tornata in Ticino dove non avevo neppure una casa. Mi ha ospitato Monica – l’altra mia amica storica – e ho passato un’estate a girare in bici e a leggere e studiare in biblioteca finché ho capito. Il mio mondo, il mio posto era la radio piena di musica e… sono tornata in quella casa che per me era, allora, Rete3.
Sogno realizzato?
Sogno che sto realizzando. Riuscire a trasmettere, con la voce, emozioni vere in un colloquio fondato sull’empatia. Parlare senza leggere alcunché. Raccontare e basta. Grazie ai cinque anni di Albachiara in coppia ho imparato a uscire dalla trappola della scaletta scritta minuto per minuto. Poi, a dirla tutta, a essermi stato d’aiuto è stato anche il mio sore del ginnasio, il prof. Buletti (quello che mi aveva bocciato in quarta). Lui mi aveva fatto notare che non sapevo distinguere tra linguaggio scritto e linguaggio parlato. Era vero, ma io sono riuscita a trasformare un limite in opportunità e così, a parte qualche collega più attento, in pochi si sono accorti che, per anni, ho parlato al microfono leggendo. Poi, per facilitare quell’empatia di cui ti dicevo, dal 2004 ho sempre con me un taccuino che aggiorno quando, leggendo un libro, m’imbatto in parole e frasi belle. È il mio taccuino delle «parole belle». Penso che il linguaggio fluido e le belle parole migliorino la vita.
Ma se la radio è il tuo sogno, la tua casa, perché ci sono tanti palcoscenici nella tua vita?
Perché il contatto diretto con il pubblico è un’esperienza unica, puoi lasciarti andare un po’ di più perché la reazione è immediata, e poi, adoro capire cosa e dove migliorare. Ti racconto un episodio. Qualche anno fa, a Mendrisio, ho presentato la cerimonia di scambio d’auguri di fine anno. C’era tantissima gente e, alla fine, sono rimasta lì e molti sono stati coloro che ho salutato personalmente. Tra loro un signore non più giovanissimo. Quando mi ha raggiunta mi ha preso le mani e se le è messe sul cuore. «La Sandy! Ma che bello! Lei non sa come sono felice in questo momento. Cara, cara Sandy che mi tiene compagnia. E adesso la conosco di persona. Che gioia!». Non sono riuscita a dirgli niente. Sono stata capace soltanto di sorridergli tra le lacrime (sue e mie) e poi abbiamo cominciato una bella chiacchierata. Conoscere le persone che ti ascoltano alla radio. Dare un volto al tuo pubblico. Anche questa, per me, è la radio. Poi è proprio grazie a uno di questi palcoscenici che ho conosciuto il mio compagno, Hamos Meneghelli. Era lui il produttore di quella cerimonia del 2009, per me la più bella di sempre.