Il ritorno della «tempesta perfetta»

Covid-19 - Pazienti affetti da coronavirus e una seconda ondata che non giunge inattesa
/ 23.11.2020
di Maria Grazia Buletti

«C’era da aspettarselo», afferma l’epatologo ed esperto in malattie infettive Andreas Cerny: oggi questa seconda tempesta perfetta è favorita e aggravata da condizioni differenti rispetto alla primavera passata: «le misure di contenimento sono meno severe di prima (quando avevamo sprangato al virus tutte le porte, chiudendo scuole e commerci). Oggi attività commerciali, trasporti, mobilità delle persone, edilizia e scuole sono diversi aspetti della nostra società che restano attivi, permettendo dunque al coronavirus di diffondersi pure nei mesi a venire». 

Gli chiediamo cosa sia cambiato per i pazienti ambulatoriali e i trapiantati: «I medici, già presenti sul territorio da subito, oggi sono pronti e abituati a seguire a domicilio i pazienti fragili. Nel frattempo, è stato varato un sistema di monitoraggio dei parametri a domicilio, in modo da ricoverare solo chi lo necessita e farlo immediatamente all’aggravarsi della situazione».

293 nuove persone positive, 48 nuove persone ricoverate, 36 pazienti in cure intense, 4 persone decedute: ecco un esempio di dati emanati dal DSS sulla situazione epidemiologica del 18 novembre scorso. Numeri con cui siamo ormai abituati a confrontarci quotidianamente. Ma dietro a queste cifre ci stanno le persone, quelle che si ammalano più o meno gravemente di Covid-19. A fronte delle cifre delle nuove infezioni, il dottor Pietro Antonini, specialista in medicina interna e tropicale che si trova in prima linea con i pazienti covid alla Clinica Luganese di Moncucco, così interpreta la situazione attuale e le differenze con la primavera scorsa: «La popolazione testata a fine primavera era completamente diversa da quella che testiamo oggi: all’inizio i tamponi erano effettuati solo a persone molto malate, mature per entrare in ospedale, mentre gli altri erano scarsamente testati e restavano a domicilio aspettando che passasse. Comunque, la siero-sorveglianza cantonale aveva dimostrato che circa il 10 percento dei ticinesi si era infettato: dai dati sierologici si è estrapolato che si erano infettate circa 33mila persone su 3mila diagnosi effettuate». 

Oggi sono per contro testate molte più persone: «Si sottopongono a tampone tutti quelli che presentano sintomi, pure simili a quelli influenzali, come mal di gola e raffreddore. Ora il tasso di positività non è paragonabile a quello di marzo, ma il virus circola più ampiamente perché chi ha un raffreddore ha una probabilità su quattro di avere contratto il coronavirus che, d’altra parte, è uno dei virus respiratori che circola maggiormente». 

Al netto dei dati, oggi le persone vengono ricoverate prima di essere gravissime: «Ricoveriamo chi avrebbe alta probabilità di decorso grave ma che sta ancora relativamente bene». Per questo, i ricoveri sono convogliati per lo più nei reparti di degenza e, al momento in cui parliamo con il dottor Antonini, egli conferma che a fronte di 130 ricoverati solo 5 o 6 sono degenti in terapia intensiva (anche se la situazione potrebbe essere in divenire): «L’ospedale è consigliato alle persone con fattori di rischio per una grave evoluzione, dimostrata ad esempio dalla storia clinica individuale e dagli esami di laboratorio». 

Certo è che all’esaurirsi delle proprie risorse respiratorie la persona degente deve essere trasferita in cure intense, dove può essere posta al respiratore: «L’insufficienza respiratoria potrebbe avere esito infausto, dunque alcuni pazienti devono essere ventilati dalle macchine perché non ce la fanno più, altri possono fruire di diversi presidi ventilatori che aiutano a evitare l’intubazione. Coloro che non vengono intubati hanno ancora un po’ di riserva, sebbene molto gravemente ammalati». 

Oggi sono sottoposte a test e prese a carico più persone con sintomi meno gravi rispetto alla prima ondata, eppure egli afferma: «Non abbiamo ancora una terapia efficace scientificamente provata e non ci sono grandi differenze di presa a carico rispetto a prima». Parla delle consuete «terapie di supporto» con ossigeno, idratazione, anticoagulanti. Questi ultimi definiti «un’arma a doppio taglio» per il rischio di trombosi superiore a chi ha l’influenza («gli anticoagulanti vanno dosati attentamente per non causare altri problemi»). Spiega che gli antivirali sono fra i farmaci specifici («oggi diversi prodotti sono allo studio e il Remdesivir è l’unico che per ora pare dare risultati»). Rispolvera il «buon vecchio cortisone» a cui riconosce qualche effetto su chi ha sindrome infiammatoria importante, ma ne ricorda pure i limiti. E sugli immunosoppressori dice: «Ne abbiamo usati di quelli per le malattie reumatiche, ma l’argomento è ancora molto controverso e gli studi in corso non danno ancora esiti soddisfacenti». Al netto di questi farmaci che definisce «non banali», con effetti secondari, somministrati per corto tempo, egli afferma: «A oggi le terapie non hanno effetto certificato su decorso, durata della malattia e mortalità anche in chi assume cortisone: pazienti altamente sintomatici o con forte sindrome infiammatoria provocata dal virus, col rischio di prolungare la permanenza del virus e il quadro clinico». 

D’altronde dal 1700 in poi, con le altre pandemie, già si sapeva che l’efficacia della lotta stava nelle misure di contenimento come munirsi di pazienza, distanza sociale, mascherine usate correttamente, disinfezione delle mani, e prudenza nei contatti: «Anche a livello terapeutico stiamo combattendo quest’epidemia con presidi che conoscevamo già dal 1700 e tutto ciò che stiamo aggiungendo è davvero low tech, in attesa del vaccino nel quale confidiamo prima possibile». 

Oggi sappiamo che la malattia è chiaramente legata all’età e a determinati fattori di rischio: «I diabetici si ammalano più gravemente degli altri; possono concorrere fattori genetici e la prognosi può giocarsi anche attorno alle probabilità di guarigione o meno dell’individuo». Sui pazienti dimessi egli ricorda che la durata dell’immunità è ancora al vaglio e il vaccino, ribadisce, aiuterà nella gestione di questo virus: «Con alti e bassi andremo avanti fino a marzo, poi la bella stagione permetterà una tregua e speriamo di vaccinare un po’ di persone; a ottobre non sarà debellato, ma speriamo di non avere più queste ondate». Però ci mette in guardia: «Fino alla prossima pandemia: dovremmo investire di più nella ricerca delle zoonosi (ndr: virus e batteri trasmessi dall’animale all’uomo) perché ci sono virus anche molto più gravi di questo. Non dobbiamo illuderci che questa volta sia l’ultima; dunque, la ricerca sarebbe la nostra àncora di salvezza per non trovarci impreparati».