Il rischio dell’irrilevanza sociale

Architettura – La mostra dei progetti del Premio SIA 2020 è l’occasione per riflettere sulla condizione attuale dell’architettura ticinese
/ 24.02.2020
di Alberto Caruso

Quale è la condizione attuale dell’architettura ticinese? Rappresenta ancora, a livello svizzero e internazionale, un’eccellenza? L’esito del Premio SIA 2020, attribuito lo scorso 7 febbraio, è l’occasione per qualche riflessione su questi interrogativi. Dei 54 progetti presentati al Premio, le case unifamiliari sono il 33%, contro il 25% dei progetti presentati all’edizione 2016, e il 44% di quelli del 2012. Non è certamente un campione scientifico – perché si tratta di autocandidature – ma è comunque un segnale di tendenza, che indica la difficoltà incontrata dalla cultura architettonica a modificare il modello di abitazione che ha avuto grande successo da diversi decenni, e che ha provocato il disordine e la diffusione che caratterizzano larghe parti dei fondovalle.

I visitatori più attenti della mostra dei progetti (che rimane aperta presso l’Accademia di Mendrisio fino al 27 febbraio) hanno notato che il linguaggio di queste opere è molto eclettico e come questo fenomeno – del riferimento linguistico a culture architettoniche diverse ed anche lontane, rispetto alla tradizione moderna locale – aumenta di intensità con il passare degli anni. Favorito soprattutto dall’informazione planetaria via web, ed anche dalla formazione proposta dall’Accademia, aperta a docenti e studenti di tutto il mondo, l’eclettismo linguistico ha raggiunto una dimensione significativa e crescente. Non mi pare, tuttavia, che questo sia il tema più preoccupante della trasformazione in corso nella cultura architettonica. La diversità dei linguaggi, infatti, è stato un tratto caratteristico della modernità ticinese, sia nelle opere della prima generazione – quella di Tami, Ponti, Brivio, Jäggli, Camenzind – sia in quella successiva, che ha fatto conoscere il Ticino nel mondo. È per questo che non si può parlare di «scuola ticinese». Il moderno ticinese non è accomunato dal linguaggio, ma dalla semplicità, chiarezza e coerenza degli impianti, dal ricorso alla geometria elementare e all’economia espressiva, dalla ricerca ossessiva di relazioni dell’oggetto architettonico con il contesto. Osservando le piante di questi progetti, è doveroso confermare che esiste ancora una forma di «resistenza» dell’architettura ticinese rispetto alla tentazione – che a livello internazionale ha molto successo – di inseguire effetti spaziali spettacolari, rinunciando alla ricerca rigorosa della soluzione. Certamente l’eclettismo così avanzato delle forme spesso interrompe e rende confusa la rappresentazione diretta dei concetti, della motivazione razionale delle stesse forme, che rimane leggibile solo in filigrana.

Mi pare che il tema principale sia un altro, sia la consapevolezza della mutata condizione territoriale nella quale gli architetti esercitano il mestiere. Apparentemente, sembra che sia in gioco l’«appartenenza» alla tradizione moderna, ed è vero che spesso, soprattutto nei progetti dei più giovani, l’adozione di forme immotivatamente trasgressive del linguaggio alimentano questo rischio. Ma in gioco c’è qualcosa di più importante: c’è il rischio della «irrilevanza» sociale del mestiere dell’architetto.

Il territorio e le città sono state oggetto di tendenze insediative provocate non da una generica «globalizzazione» – una specie di destino inevitabile, che ha interessato in modi simili tutte le aree urbane europee – ma dalle politiche urbanistiche liberiste ispirate da precisi interessi fondiari, e dalla convinzione propagandata che costruire la propria casa dovunque sia un’affermazione di libertà. Tant’è che fanno eccezione i paesi nordici, nei quali vige, in forme diverse, un regime pubblico dei suoli. In Ticino, una parte della politica sia cantonale che comunale (anche sollecitata dalle leggi federali dirette a ridurre il consumo di suolo) è consapevole del disastro economico e sociale provocato dal modello liberista – costo delle reti, costo dei trasporti, ecc. – e così pure diversi architetti e ingegneri e le loro associazioni professionali.

È chiara la convinzione che solo un impegno straordinario da parte di tutti gli attori può raccogliere il consenso necessario a invertire la rotta. Bisogna inaugurare politiche finalizzate al ritorno in città delle famiglie emigrate nelle campagne, con politiche che favoriscano la costruzione di alloggi adeguati per tipologia e per costo alla domanda delle ultime generazioni, bisogna progettare episodi di densificazione nel territorio periurbano, bisogna progettare a grande scala costruendo luoghi dotati di forte urbanità, inventare morfologie ibride capaci di attrarre attività e innescare processi di rigenerazione, bisogna rompere i confini di competenza rispetto ai pianificatori. Senza un rinnovamento coraggioso della cultura architettonica, che riconosca e sostenga le politiche giuste, questo è impossibile. Ci vuole un nuovo protagonismo, un fiorire di proposte e progetti che svolgano una funzione didattica nei confronti della grande opinione pubblica. Ricordate i progetti che Luigi Snozzi negli anni 70 faceva per sostenere le sue battaglie nella commissione cantonale Bellezze Naturali?

Gli architetti colti, quelli che partecipano ai concorsi, costruiscono le opere pubbliche e considerano una questione centrale del mestiere la critica alle tendenze insediative prevalenti, sono per lo più esclusi dai mandati conferiti dai gruppi immobiliari, per i quali lavorano altri architetti, che dedicano le loro capacità professionali alla soddisfazione acritica della domanda del mercato. In questa situazione, nonostante che le immagini delle cosiddette archistar riempiano i rotocalchi, il ruolo sociale degli architetti è andato progressivamente riducendosi. Le competenze degli architetti stanno scadendo da competenze tecniche e spaziali a competenze estetiche.

È una fase difficile, di disorientamento rispetto al valore civile del mestiere, mentre si registra anche un’eclisse della critica architettonica. E ciò avviene proprio quando è necessaria una mobilitazione generale delle energie progettuali.

In questo scenario, l’esito del Premio SIA 2020 risulta debole. Dall’insieme dei riconoscimenti non appare una linea culturale univoca e, rispetto alle importanti sfide fin qui descritte, il contributo offerto dal Premio è inadeguato. Il premio principale è stato attribuito ad un architetto tra quelli che si battono con maggiore vigore per gli obiettivi fin qui descritti, ma la piccola opera premiata (la scuola dell’infanzia a Morbio Inferiore, di J. Könz), di grande valore per la ricerca tipologica e spaziale, non poteva per ragioni di scala essere un’occasione di riscatto territoriale. Solo tre dei progetti ai quali sono stati attribuiti dei riconoscimenti stabiliscono relazioni di rilievo con il contesto: il centro scolastico Nosedo a Massagno, di Durisch Nolli e Giraudi Radzuweit, che forma una densità centrale in un abitato che ne è privo; la casa torre d’angolo a Mendrisio, di Krausbeck con Santagostino e Margarido, che propone una tipologia decisamente urbana; la casa a Montecarasso, dei fratelli Guidotti, che risolve in modo esemplare un piccolo spazio di vicinato. Non sono state, invece, prese in considerazione altre opere come, ad esempio, la Masseria Cuntitt a Castel S. Pietro, di Quaglia, una vera prova di rigenerazione urbana o la casa anziani a Giornico, di Baserga e Mozzetti, che è un condensatore sociale, la tipologia più complessa del villaggio.

La qualità in sé di un edificio deve passare in secondo piano, rispetto alla capacità di stabilire relazioni che provochino processi di trasformazione. Ed è anche necessario chiarire un equivoco: la sostenibilità energetica di un edificio non deve essere un merito da premiare, ma il requisito tecnico minimo per essere ammessi alla partecipazione ad un premio. Se si costruiscono mille piccoli edifici, tutti energeticamente perfetti e di grande qualità architettonica, ma dislocati in modo diffuso sul territorio, si provoca comunque un gigantesco spreco di energia, di risorse economiche e di suolo, non recuperabili per lungo tempo.