Nelle scorse settimane la più estesa foresta tropicale del mondo si è trovata avvolta nei fumi di una crisi ecologica oltre che politica. In questo articolo tratteremo solo il discorso ecologico-scientifico. Nel mondo non mancano certo i momenti di crisi per le foreste. Quello dell’Amazzonia è solo uno dei grandi roghi di foreste nel corso di quest’anno. Ardono anche l’Indonesia e varie zone dell’Africa. Pure nell’area boreale le foreste stanno bruciando a un ritmo allarmante. Sono in fiamme il Canada e in particolare la Siberia dove, a partire dal giugno scorso, in due mesi si è persa una superficie di foresta estesa quanto il Belgio. Il fatto ha riversato nell’atmosfera una quantità di CO2, l’anidride carbonica che alimenta l’effetto serra, stimata a cento milioni di tonnellate.
Le immagini dei satelliti Sentinel dell’Agenzia spaziale Europea hanno registrato il fenomeno: per quanto attiene alla Siberia, ad esempio, l’incendio è stato solo monitorato e non contrastato in quanto i roghi sono molto lontani dai centri abitati e il governo russo ha considerato «antieconomico» andare a raggiungerli per spegnerli. Secondo Greenpeace Russia quest’anno sono bruciati dodici milioni di ettari di terreno nelle regioni polari, riducendo fortemente la capacità delle foreste di assorbire l’anidride carbonica. Come si sa, l’albero vive e cresce utilizzando elementi naturali: l’acqua, l’energia del sole, i nutrienti della terra e l’anidride carbonica (CO2) che sottrae all’atmosfera attraverso il processo della fotosintesi. Quando assorbe più CO2 di quello che rilascia, un albero viene definito «pozzo di carbonio».
Il famoso Protocollo di Kyoto prevede espressamente l’assorbimento forestale quale attività di mitigazione climatica, cosa oggi fondamentale di fronte a un accertato riscaldamento globale e all’aumento dell’effetto serra al quale l’attività umana non è estranea. Quanta CO2 assorbe e sequestra un albero? La risposta più corretta è «dipende», perché sono tanti e variegati i fattori che influenzano il processo di assorbimento del CO2 nel complicato ciclo del carbonio. Bisogna innanzitutto fare una distinzione di base riguardo alla pianta: albero o arbusto, ad alto fusto o basso. Poi vedere l’ambiente nel quale vive, nel clima temperato o tropicale, se è in natura o in un contesto urbano, se gode di una manutenzione oppure no. Sono tutti fattori e variabili rilevanti per la crescita dell’albero e della sua capacità di assorbimento dell’anidride carbonica. Per cui ha poco senso un’affermazione come quella che circolava qualche tempo fa e diceva che «se piantassimo tremila miliardi di alberi cancelleremmo dieci anni di emissioni nocive nell’aria». Tuttavia l’indicazione non è peregrina e ci dà da pensare. Diciamo pure che più alberi ci sono al mondo e meglio è.
Uno studio dell’Università del Maryland, apparso quest’anno su «Nature», ha reso noto che dal 1982 al 2016 la superficie mondiale coperta da vegetazione è aumentata del 7,1%. Però a fronte di certe zone che hanno avuto più alberi ce ne sono state altre che ne hanno persi, e sono proprio le più importanti, quelle delle aree tropicali: le foreste umide, le foreste pluviali, le foreste secche.
Tornando alla deforestazione amazzonica, l’Università di Rio ha registrato in un anno, dall’agosto 2017 al luglio 2018, l’abbattimento di 7900 kmq di foresta, il 13,7% in più dell’anno precedente. Di fatto, e questo è un altro dato ufficiale del Centro mondiale di ricerca sulle foreste (CIFOR), dal 1990 al mondo si è persa una copertura forestale pari a tre volte la superficie dell’intera California: un’enormità. Tutto ciò è il risultato di molti fattori, incluso il fuoco, ma anche del disboscamento selvaggio, del cambiamento climatico, delle pratiche agricole non appropriate, delle malattie e delle pesti che sorgono nelle aree forestali convertite in terre agricole, cosa che nell’Amazzonia accade spesso.
Anche il proliferare delle coltivazioni di palme da olio, che non può essere considerato un rimboschimento, sta creando diversi danni alla qualità dei suoli. Proprio in Brasile un dato accerta che i danni maggiori si riscontrano nella foresta secca, come quella della vastissima savana tropicale denominata Cerrado. Sono quasi due milioni di kmq, un’enorme eco-regione non protetta dalla legge, minacciata pesantemente da scriteriate politiche agricole, da incendi dolosi, oltre che dalla pressione antropica.
In questa zona importanti organizzazioni non governative effettuano studi e interventi per rendere la foresta resiliente. La duplice strategia adottata mira a combattere il cambiamento climatico e a investire sul ripristino della foresta. Si sa come evitare i catastrofici fuochi nelle foreste tropicali: invece di focalizzare l’attenzione sui fuochi ormai esistenti si invita a prestare maggiore attenzione alla prevenzione.
Gli scienziati denunciano anche che allo stato attuale si sta spingendo la foresta amazzonica verso un punto di squilibrio nel quale potrebbe gradualmente trasformarsi in foresta secca, in una savana che l’uomo non saprebbe più recuperare. Raggiunto un certo livello di degrado, la foresta perderebbe la capacità di generare le proprie piogge, che oggi la salvano e la rendono vitale. L’ecosistema cambierebbe caratteristica: invece di una foresta di latifoglie, ricca di flora e di fauna selvatica, muterebbe in una desolata distesa cespugliosa.
«Il pessimismo non ha mai portato da nessuna parte», afferma il CEO della Conservation International di Washington M. Sanjayan. «Noi tutti siamo parte del problema, ma noi possiamo anche essere parte della soluzione».