Il pozzo avvelenato

Fallacie e paradossi – Come difendersi da un falso argomento
/ 20.06.2022
di Manuel Guidi

L’assuefazione al serraglio dei battibecchi digitali e televisivi mortifica la capacità di discernere tra sensato e insensato. Il proliferare di fallacie e falsi argomenti nel dibattito pubblico partecipa così al trionfo della retorica sulla ragione, tanto più che il senso viene a volte deliberatamente sacrificato a favore dell’effetto sulla platea. Ma se le armi della logica cedono troppo il passo alla logica delle armi (retoriche), rischiamo tutti di fondare sempre più spesso le nostre opinioni su argomenti fallaci.

Certo, nessuno è immune da errori di ragionamento. Anche Hegel diceva che la logica non è tutto, anche se tutto è logica. Tutti quando parliamo usiamo argomenti efficaci e inefficaci, buoni e cattivi. Il fatto è che queste categorie non sempre sono sovrapponibili: un argomento perfettamente logico può essere del tutto inefficace mentre la più incurante illogicità può essere molto persuasiva.

Capire le fallacie è utile per valutare ciò che viene detto e svela anche qualcosa su chi lo dice e sulle sue intenzioni. Non solo infatti i fini non giustificano i mezzi, ma sono spesso proprio i mezzi utilizzati a dirci qualcosa sui fini. Una delle fallacie che vediamo più spesso all’opera, soprattutto nelle arene politiche, è quella nota come avvelenamento del pozzo. Si tratta di un argomento ad hominem, si verifica cioè quando si colpisce la gamba del giocatore anziché la palla. Si tratta di un modo di argomentare tanto diffuso da non essere nemmeno più percepito come fallace. Anzi, come ha sottolineato l’esperta di logica Franca D’Agostini, è ormai da tempo divenuto un abito retorico-argomentativo condiviso.

Il nome della fallacia del pozzo trae origine dalla strategia militare della terra bruciata. Si tratta di una pratica attuata per secoli dagli eserciti in ritirata, che per non lasciare risorse agli inseguitori avvelenavano tutti i pozzi d’acqua che incontravano lungo il cammino. In questo modo, con un piccolissimo sforzo, si potevano infliggere al nemico danni enormi. La stessa spietata efficacia si ha quando, in un dibattito, si smentisce la tesi dell’avversario appellandosi, in modo diretto o indiretto, a una sua caratteristica. Chi classifica le fallacie chiama questo modo di procedere argomento ad hominem circostanziale. Ancora peggio è quando l’attacco, anziché circoscritto, è generalizzato. È ciò che avviene quando si delegittima a priori l’avversario, o un gruppo di avversari, non per confutare un singolo argomento ma per screditare tutto ciò che dice o dicono. Con tale strategia, detta ad personam, si intende eliminare una volta per tutte l’interlocutore, avvelenare insomma tutta l’acqua del suo pozzo. Per esempio si potrebbe dire: «Siccome sei calvo, non puoi fare il tricologo», oppure «Se non sei mai stato in Russia o in Ucraina, ciò che dici sulla guerra è falso» o ancora «Se non ospiti un migrante a casa tua, le tue tesi sull’immigrazione non hanno valore». Nel caso in cui l’avversario è per qualche ragione inattaccabile, magari perché legittimato a parlare in quanto esperto, si agisce allora per via indiretta, associandolo, magari per una supposta comunione d’intenti o di prospettive, ad altri personaggi poco o meno rispettabili. Per quanto inconsistenti logicamente, simili argomenti sono spesso percepiti come validi e appaiono come modi legittimi per confutare le tesi altrui, le quali in realtà non vengono nemmeno sfiorate.

Vediamo all’opera la forza persuasiva di questo modo di argomentare anche nei processi, quando si scredita una testimonianza elencando le malefatte del testimone. È vero che è difficile credere a un disonesto cronico, ma è anche vero che a rigor di logica questo non è un giudizio sulle sue parole, ma un pregiudizio sulla sua persona. In tali contesti è allora utile far notare la fallacia, ma fuori dai tribunali, quando lo scopo non è la ricerca della verità ma la vittoria sull’interlocutore, bisogna tenere conto che a volte persino la logica più raffinata può essere disarmata dalla peggiore retorica.

Ma non dobbiamo scoraggiarci, in fondo, la logica non è tutto… Oltre a Hegel, questo lo sapeva bene anche il suo acerrimo rivale Schopenhauer, che a differenza sua teneva logica e dialettica ben separate sostenendo che l’arte di dibattere non avesse nulla a che fare con la verità. Così, se Hegel elevava la dialettica fino alle vette della filosofia, Schopenhauer la riportava giù nelle paludi della «naturale prepotenza umana». Sul tema scrisse anche un famoso prontuario di eristica, ossia l’arte dell’argomentazione perniciosa, composto di trentotto stratagemmi utili a chiunque volesse uscire vincitore da ogni possibile disputa. Alla tecnica del pozzo sono dedicati il sedicesimo stratagemma, in cui ne raccomanda l’uso circostanziale; il trentasettesimo, in cui consiglia di mascherarla come argomentazione oggettiva; e l’ultimo, in cui esorta, se messi all’angolo, a insultare l’avversario. Se poi ci si dovesse difendere da questo tipo di attacchi, la soluzione suggerita è semplicissima: poiché «ciò che importa non è la verità, ma la vittoria» se l’avversario «avanza un argumentum ad hominem, sarà sufficiente infirmarlo con un altro ad hominem». Se qualcuno avvelena il nostro pozzo dovremmo quindi avvelenare a nostra volta il suo. Alla fine però, così facendo non solo l’acqua dei pozzi ma tutta l’acqua dei fiumi sarà avvelenata e questo spianerà la strada a una moltitudine di nuove fallacie.

E allora, come possiamo difenderci dai falsi argomenti che appestano il dibattito pubblico? Nella tradizione, il loro successo è spiegato con il principio di ignoranza, ossia, e questa era anche l’obiezione di Aristotele contro i sofisti, le fallacie fanno presa soprattutto su chi non conosce le regole logiche e le insidie del linguaggio. L’unico antidoto ai veleni dell’eloquenza è quindi sempre lo stesso, quello del motto illuminista: sapere aude! Bisogna avere il coraggio di conoscere e di servirsi del proprio raziocinio.