Il linguaggio della violenza domestica

Intervista – La linguista Raffaella Scarpa offre un approccio diverso da quelli tradizionali per comprendere gli abusi tra le mura di casa analizzando i discorsi e il dialogo quotidiano di 27 testimoni
/ 03.01.2022
di Stefania Prandi

«Dedico questo libro a chi non sa riconoscere l’intollerabile». Recita così l’introduzione de Lo stile dell’abuso, saggio di Raffaella Scarpa, docente di Linguistica (italiana e medica) all’Università di Torino. Il testo, pubblicato dalla casa editrice Treccani, offre un approccio diverso da quelli tradizionali alla violenza domestica – definita «una forma specializzata di tortura innestata in una sorta di stato d’assedio» – attraverso l’analisi dei discorsi di 27 testimoni, 21 donne che hanno subito abusi e 6 uomini maltrattanti. Due delle intervistate hanno sporto denuncia contro il partner, una è stata in seguito uccisa dall’ex marito.

Professoressa Scarpa, nel suo libro analizza la violenza domestica dal punto di vista del linguaggio. Perché questa scelta?
Per me è stata una scelta inevitabile e controcorrente. Mi ha sempre stupito constatare che quando si affronta il fenomeno della violenza domestica si parla di tutto ma non del linguaggio. Al di là delle manifestazioni di superficie come gli insulti, le contumelie, le offese e le urla, non si discute mai di come l’abusante si rivolga all’abusata nel dialogo quotidiano e quali siano le dinamiche dell’azione verbale tra i due. Io cerco di saturare questa gigantesca lacuna, o quanto meno di iniziare a compensarla. È un vuoto da riempire che mi è apparso nella sua massima evidenza proprio durante le interviste. C’era qualcosa di non eclatante, ma di leggermente stonato, che toccava l’orecchio e che io stessa non riuscivo esattamente a intercettare.

Come accade la violenza nel linguaggio?
Per il senso comune, la violenza espressa nel linguaggio è legata fondamentalmente a fenomeni relativi al cosiddetto «linguaggio d’odio». Con questo termine intendo le modalità per cui si esercita una sorta di violenza attraverso le parole, usate come armi; quindi, gli affronti, gli attacchi personali, gli screditamenti, gli improperi e così via. Tutto ciò è chiaramente identificabile come il prodotto linguistico di una volontà di fare male, ferire, mettere all’angolo e ai margini. Da un lato è un’idea corretta, ma da un altro è straniante perché ci impedisce di capire appieno i meccanismi. Nel libro analizzo il sistema piuttosto complesso, a più direttrici, non in piena luce, della macchina per assoggettare e sopprimere attraverso il linguaggio. È un annientamento di fatto, un’alienazione da sé che il linguaggio d’abuso genera nella coscienza. Da lì, poi, si può arrivare, come sappiamo, all’annientamento reale, cioè alla morte.

Dalle interviste che ha raccolto emerge la percezione di irrealtà da parte delle donne che subiscono la violenza. Come mai è così difficile rendersi conto degli abusi domestici mentre avvengono?
Il problema è che chi subisce violenza domestica tendenzialmente non si rende conto di ciò che sta vivendo. È una dinamica quasi sconcertante. Perché c’è una dispercezione tra ciò che si subisce e ciò che sta accadendo? Il linguaggio è una macchina di plagio, manipolazione, menzogna, coartazione e annichilimento. Tra gli obiettivi ha proprio di provocare l’incapacità di esercitare il giudizio su se stesse e sul mondo, attraverso una perpetrata e continua operazione di destabilizzazione. Uno dei primi effetti dello stile dell’abuso è annullare la capacità di percepire in maniera obiettiva quanto sta accadendo e di esercitare il giudizio. Tengo molto alla dedica: nell’abuso, e spesso nella vita, riconoscere ciò che è intollerabile – cioè che non deve essere tollerato – è una delle cose più difficili.

Gli uomini maltrattanti come raccontano le violenze che hanno compiuto?
Questo è un libro laico, realizzato attraverso l’analisi di numerose tipologie di testi. Ci tengo a dire che non ci sono né i buoni né i cattivi, non ci sono mostri, è un lavoro scientifico per descrivere i meccanismi di un incastro di potere. Gli uomini maltrattanti raccontano le violenze agite attraverso una sorta di filtro: minimizzano la portata delle loro azioni, le normalizzano. Secondo loro le violenze, in fondo, non erano più che un litigio. Usano avversativi, come «ma», «però», oppure concessivi, «tuttavia», «sebbene», fino a una negazione implicita. È inquietante notare che nei pronto soccorso spesso la donna maltrattata arriva accompagnata dal compagno che l’ha picchiata e, allo stesso tempo, si interessa del suo stato, sollecitando gli operatori sanitari a intervenire. E l’uomo chiede anche cure per sé: la mano che colpisce si autorappresenta come vittima, in una specie di fusione dei ruoli.

Secondo lei la violenza domestica dovrebbe essere rappresentata in maniera diversa dai media?
Le immagini e le narrazioni mediatiche che rappresentano la violenza domestica hanno contribuito a creare un immaginario straordinariamente falsato intorno a un fenomeno ancora in buona parte incognito e non studiato. Ci accomodiamo su un’idea intuitiva non reale. I media vittimizzano la donna che subisce violenza, rappresentandola come un soggetto debole, col volto in ombra, spesso coperto da capelli, a volte con ecchimosi o lacerazioni, talvolta con punti di sutura, e in una situazione in cui non c’è nessuno. La dimensione della solitudine, della paura, del ripiegamento e della disperazione generano un immaginario mistificante. In realtà la donna che subisce violenza è molto vitale, ha una personalità ancora nei pieni poteri di riprendere il controllo sulle cose.

Dovremmo usare dei termini diversi per definire la violenza tra le mura di casa?
La dicitura «violenza domestica» è effettivamente depistante perché implica un’azione prodotta da un soggetto su un altro in cui la lesione, l’offesa e l’aggressione siano estremamente evidenti. Sappiamo invece che spesso si tratta di un fenomeno occultato, non soltanto perché è chiuso nella capsula dello spazio della casa, nella maggior parte delle manifestazioni, ma anche perché agisce sottobanco e sottotraccia. Non è affatto detto che la violenza domestica sia chiaramente violenta. Quindi, usare la parola «violenza», secondo me, può essere fuorviante. Io ho codificato un’altra categoria, il «potere domestico»: mi sembra molto più produttiva.