Rabbia, paura, disperazione, cura e ascolto. Il silenzio nasconde emozioni e motivazioni diverse tra loro. Saperlo interpretare e riempirlo di senso fa la differenza. Il linguaggio del silenzio. Decodificare i suoi messaggi nella comunicazione affettiva, l’ultimo saggio della psicologa e psicoterapeuta Ivana Castoldi, appena pubblicato da Feltrinelli, ci guida all’importanza del tacere.
Ivana Castoldi perché ha deciso di scrivere un libro sul linguaggio del silenzio?
Per due ragioni principali. La prima è di carattere personale: ho sempre amato il silenzio, è una risorsa preziosa per accrescere il benessere e l’autonomia, un mezzo per entrare in contatto con me stessa. La seconda ragione è di carattere professionale. La mia prima formazione è avvenuta nell’ambito della terapia familiare. Ho toccato con mano la rilevanza del silenzio, con i suoi innumerevoli significati e le possibili interpretazioni.
Che tipi di silenzio esistono?
Il silenzio è una forma di linguaggio spesso più eloquente di quello verbale. È complesso perché sottende un’infinità di significati, pensieri, sentimenti, stati d’animo, propositi, richieste e aspettative, non espresse a parole. C’è tutto un mondo dentro al silenzio; se non siamo in grado di coglierne gli aspetti e le sfumature, di decodificare correttamente le intenzioni del nostro interlocutore, andiamo incontro a fraintendimenti e incomprensioni che hanno ricadute nocive – a volte drammatiche – sulle relazioni con gli altri. Per fare qualche esempio, possiamo rischiare di leggere un atteggiamento malevolo di chiusura o rifiuto di qualcuno nei nostri confronti quando il silenzio è invece causato da timidezza o imbarazzo. Al contrario, può capitarci di non cogliere nel silenzio dell’altro un avvertimento per non farci invadere il suo spazio privato. Così come può succedere di confondere un silenzio rancoroso con una muta richiesta di aiuto.
Quando è meglio stare in silenzio?
È impossibile dare una risposta univoca. Dipende dal contesto, dalle circostanze e dal grado di conoscenza che si ha della persona con cui si interagisce. Semplificando e generalizzando, posso cercare di indicare qualche strategia mediamente efficace. Tacere può servire a segnalare al nostro interlocutore che ci stiamo ponendo in ascolto, con tutta la concentrazione necessaria, per incoraggiarlo a entrare in contatto con noi. In alcune occasioni di contrasto e di attrito, stare zitti può servire a disattivare la conflittualità, creando uno spazio distensivo per avviare un dialogo fruttuoso. Un silenzio difensivo, seppure non ostile, può sviare la curiosità e i tentativi di interferenza nella nostra vita. E ancora, soprattutto con il partner, rinviare il nostro bisogno di ottenere risposte e chiarimenti immediati permette di non scatenare litigi.
E quando, invece, le parole sono importanti?
Con alcune persone il silenzio non è utile, anzi, può rivelarsi persino controproducente. Pensiamo ai bambini e agli adolescenti: anche se non amano essere subissati da prediche e rimproveri ridondanti, reagiscono al silenzio ostile e punitivo degli adulti con vissuti colpevolizzanti, sperimentando sentimenti di frustrazione e di angoscia. Conviene, allora, trovare le parole più adatte – poche e misurate – per portarli alla comprensione dei loro torti e al chiarimento dei concetti che si vogliono affermare. Per quanto riguarda le relazioni affettive tra adulti, uno scambio verbale è auspicabile, ma capita spesso che alcuni partner siano persino troppo loquaci. Per non parlare delle coppie cosiddette simmetriche, per le quali ogni occasione è buona per suscitare un diverbio interminabile e inconcludente. La consapevolezza è un requisito fondamentale nel dialogo. Le parole dette hanno un peso. Il luogo comune secondo il quale nei momenti di rabbia diciamo cose che non pensiamo non è propriamente valido. Infatti, se abbiamo pronunciato parole che a posteriori vorremmo rimangiarci, significa comunque che non le abbiamo concepite a caso. Un fondo di verità sussiste.
Perché certe persone fanno più fatica di altre a reggere il silenzio?
Il modello educativo tipico della nostra cultura è improntato essenzialmente su norme, prescrizioni, controllo, colpevolizzazioni e silenzi punitivi da parte degli adulti. Nel corso dell’età evolutiva, si impara ad associare il silenzio al giudizio e alla disapprovazione. Non solo, si considerano l’emotività, l’irrazionalità e gli impulsi che ne conseguono, come elementi da imbrigliare e penalizzare a favore della ragione. L’inconscio ci fa paura perché sfugge alla nostra comprensione e al nostro controllo.
Che benefici ci sono nel silenzio?
In molti casi può essere considerato decisamente «terapeutico». È utile nel trattamento degli stati d’ansia e di tensione dovuti allo stress, per ricaricare le energie fisiche e psicologiche, per ristabilire l’equilibrio interiore e l’armonia con il mondo esterno. Inoltre, ci consente di affinare le nostre capacità cognitive e acquistare maggiore consapevolezza.
Che pratiche di silenzio consiglia?
Credo siano utili le tecniche della meditazione e della consapevolezza che si possono apprendere e praticare sotto la guida di un maestro nei numerosi corsi accessibili un po’ a tutti, ma sono anche a favore della sperimentazione personale. Si può ricorrere a quelle che io chiamo «pratiche del silenzio attive». Conosco persone che «praticano» regolarmente camminando e tendendo l’orecchio al suono dei loro passi o ai rumori della natura; alcuni utilizzano l’ascolto della musica o il canto della loro stessa voce; altri ancora dipingono o curano piante. Tutto in assoluto silenzio e in solitudine. Infine, la pratica che prediligo è collezionare ricordi sotto forma di «istantanee» registrate da tutti i nostri sensi di fronte a qualche scenario naturale che ci emoziona e ci appaga in modo particolare. Non occorre nessun dispositivo meccanico o digitale per creare un album fotografico immateriale che possiamo aprire ogni volta che ne sentiamo il bisogno, riprovando le stesse emozioni della prima volta dal vivo, un balsamo per placare le nostre inquietudini.