Il linguaggio del corpo dei nostri figli

Psicologia – Osservare le espressioni, i gesti, la postura, lo sguardo o l’uso dello spazio può aiutare a comprendere gli stati d’animo
/ 26.06.2023
di Alessandra Ostini Sutto

Nell’adolescenza non è raro che i figli parlino meno con i propri genitori, per i quali può quindi risultare difficile mantenere aperto un canale di comunicazione, peraltro in un momento in cui esso sarebbe particolarmente importante dati i grandi cambiamenti – a più livelli – che questa fase di crescita comporta. Per sapere cosa fare di fronte a questi silenzi oppure come decifrare il comportamento dei propri figli, vengono in aiuto delle conoscenze relative alla comunicazione non verbale. Come ognuno di noi ha infatti sperimentato, il corpo si esprime anche in assenza di parole; la differenza – e il vantaggio a saperlo interpretare – è che esso non sa mentire. Con i ragazzi vale quindi la pena prestare attenzione ai segnali non verbali – un’espressione, la postura del corpo, un gesto, la scelta di un capo di abbigliamento – ai quali magari normalmente non facciamo caso. Soprattutto, importante è notare eventuali cambiamenti rispetto a quella che gli esperti chiamano «linea di base del comportamento» i quali possono corrispondere a una variazione emotiva.  

Su questo tema – e cioè come leggere il linguaggio del corpo dei ragazzi e capire i loro stati d’animo – è stata organizzata dall’Assemblea genitori di Pregassona in collaborazione con GRISMEL (Gruppo Regionale d’Incontri tra Scuole Medie del Luganese) una conferenza con la presenza dello psicologo Francesco Pini.

Ma facciamo un passo indietro; la scienza che studia il linguaggio del corpo si chiama «cinesica», termine ideato dall’antropologo americano Birdwhistell negli anni Cinquanta del secolo scorso. «Nel 1971 Albert Mehrabian ha evidenziato come la comunicazione si componga di tre fattori: linguaggio del corpo, voce, parole – afferma Francesco Pini – siamo portati a pensare che il linguaggio verbale sia il più importante; secondo più ricerche invece oltre il 50% della comunicazione passa per la parte non verbale. Questo ci fa comprendere la centralità di tale componente nelle relazioni sociali, dimostrata anche dal fatto che ognuno di noi ha sperimentato quanto più complicato sia comprendere il reale significato di una comunicazione in cui manca la componente non verbale, per esempio fatta via WhatsApp». Non a caso, nell’app di messaggistica citata sono stati introdotti emoticon e poi emoji, che altro non sono che riproduzioni delle principali espressioni facciali le quali fungono quindi da componenti extra-verbali alla comunicazione scritta.

«Se la comunicazione verbale è influenzata dal nostro grado di cultura e dalle competenze linguistiche, quella non verbale è fatta di segnali generali omogenei e altri figli di abitudini personali – continua Pini – ciò che le distingue è il grado di naturalezza: controllare la propria comunicazione non verbale è estremamente complicato e richiede grande allenamento e comunque alcuni segnali rimangono inconsci ed automatici. La comunicazione verbale, invece, è filtrata dal lobo frontale del cervello che è responsabile della personalità ed è organizzato per gestire funzioni esecutive come l’autocontrollo, il ragionamento, la classificazione di oggetti e la pianificazione; di conseguenza, con la parola si ha una grande capacità di manipolazione che non si ha invece con il gesto».

Sono otto i canali attraverso i quali passa il linguaggio del corpo, e cioè le espressioni, i gesti, la postura, l’uso dello spazio, il contatto fisico, l’aspetto, la voce e lo sguardo. «Con questi mezzi, nel corso di un dialogo gli individui trasmettono dei segnali che vanno oltre il significato letterale delle parole pronunciate e che possono fornire ulteriori indicazioni utili alla comprensione e all’interpretazione del messaggio – commenta Francesco Pini – queste informazioni additive possono essere consonanti oppure dissonanti rispetto all’informazione fornita dalla parola; si tratta così di una sorta di chiave di controllo del grado di rappresentazione della realtà di ciò che viene espresso a parole».

Il corpo – quindi – è il primo mezzo di comunicazione che abbiamo, che parla a prescindere dall’età dell’interlocutore. Corpo che assume un ruolo fondamentale nella fase adolescenziale. «Le trasformazioni corporee cominciano nella preadolescenza, momento in cui si realizzano importanti mutamenti a livello endocrino, di crescita di peso e sviluppo dei caratteri sessuali secondari – spiega il dottor Pini – un processo fortemente influenzato dall’ambiente in cui avviene, nel quale l’accoglienza da parte delle figure adulte di riferimento è fondamentale».

Ma cosa significa, nello specifico, «accogliere»? «Accogliere non significa accettare passivamente, bensì cercare di comprendere», risponde Pini. E per farlo, fondamentale è l’uso di domande per acquisire informazioni piuttosto che limitarsi a esprimere un giudizio, tanto più che il ragazzo si trova già in un momento delicato per quel che riguarda l’accettazione di sé, l’acquisizione di un ruolo sociale di genere e l’instaurazione di nuove relazioni con i coetanei di entrambi i sessi. «In questa fase il corpo diventa spesso inaccettato e inaccettabile. Si tratta di un elemento tipico degli adolescenti di ogni fase storica, che fa parte del tentativo di creazione di una propria identità – spiega Pini – per contro, chi riesce ad avere una percezione armonica del proprio corpo e ad accettare la propria fisicità, sarà facilitato in questo processo, con ripercussioni su stabilità, autostima ed autoefficacia».

Per «accogliere» quindi in modo efficace i propri figli in un momento tanto importante quanto delicato, quella che propone Pini è una «rivoluzione nella relazione»: «Consiglio di non fidarsi delle proprie percezioni sulle informazioni ricevute, che sono nostre proiezioni, ma piuttosto di imparare a validare il proprio sentire. E questo lo si fa, di nuovo, smettendo di sentenziare e giudicare, e trasformando le affermazioni in domande. Entrando nel dettaglio, bisogna utilizzare quello che viene chiamato “feedback fenomenologico”: rimando ciò che osservo in assenza di giudizio (vedo che stai piangendo, noto che ti si bagnano gli occhi, vedo che hai i pugni chiusi) e lascio che sia l’altro a valorizzare il contenuto del suo gesto». Strategia che assume senso e valore anche in considerazione del fatto che come una parola può avere diversi significati in funzione della frase in cui è inserita, lo stesso avviene con i gesti, le espressioni e le posture. Ogni singolo elemento del linguaggio non verbale può di fatto essere polisemico, per cui non ci si può accontentare di pensare, per esempio, che un ragazzo non sia stato sincero perché ha abbassato lo sguardo. Il linguaggio del corpo non ha infatti la pretesa di essere scienza esatta, ma piuttosto uno strumento di aiuto nella comprensione dello stato d’animo dell’altro, portando – come visto – quest’ultimo a elaborarlo cognitivamente ed esprimerlo a parole nominalizzandolo. «Soprattutto con i ragazzi, bisogna evitare di cadere nel VISSI, che sta per “valutare, indagare, soluzionare, sostenere o interpretare”. Sono tutte strategie inutili e pericolose, con le quali l’altro, soprattutto se adolescente, si sentirà invaso e giudicato e tenderà ad allontanarsi e chiudersi in sé», conclude Francesco Pini.