Il gioco? È una cosa seria

Comportamenti – Le espressioni e i comportamenti legati all’attività ludica si applicano a innumerevoli circostanze, anche perché spesso l’uomo agisce percependo come sfida la propria relazione con il mondo esterno
/ 18.10.2021
di Massimo Negrotti

Nonostante l’apparente ovvietà del termine «gioco», è plausibile pensare che questa attività universale dell’uomo – ma anche di molte specie animali – sia in realtà la punta di un iceberg molto più profondo che coinvolge direttamente la natura umana. Autori come Johan Huizinga, Roger Caillois e altri hanno teorizzato vari aspetti del gioco tracciandone anche una articolata tipologia ma assumendo questo concetto, quasi esclusivamente, come indicatore di comportamenti esplicitamente ludici. Tuttavia, partendo proprio dai termini inglesi che adotta lo stesso Huizinga, si può opportunamente riflettere sul significato delle espressioni play e game e riconoscere che, mentre il secondo si riferisce effettivamente al gioco nella sua accezione quotidiana, inclusi i giochi infantili, il primo copre uno spettro di significati molto più ampio. Fra questi, il gioco come game è solo un caso particolare poiché play, come verbo, può significare anche suonare, rappresentare, fingere e persino, genericamente, agire.

La distinzione fra i momenti del gioco, come game, e quelli del comportamento quotidiano non eplicitamente ludico, può dunque essere assai meno netta di quanto possa apparire. Si pensi ad un pianista che, in un momento di pausa, gioca al biliardo per poi tornare allo studio di un brano di musica classica, oppure ad un manager che, per rilassarsi, gioca al calcetto con un assistente per poi rituffarsi nella problematica di cui si sta occupando. C’è davvero uno iato decisivo fra la natura profonda delle due attività? Certamente i game costituiscono un ambito ben circoscritto e controllato da regole precise mentre l’esecuzione pianistica o la direzione di un’azienda, come attività di play, sono ambiti di attività «aperta» agli eventi più disparati, come interazioni ed eventi, esterni o soggettivi, improvvisi e non previsti, che possono modificare sensibilmente le modalità o il contesto in cui si sta agendo. Ma tutto si svolge sotto la spinta di una motivazione di fondo, che accomuna il play al game, costituita dalla tensione verso il successo nella sfida posta dalla realtà, alla ricerca della massima gratificazione. Una realtà che, nel caso del game, è puramente fittizia ma sembra quasi fungere da esercitazione in vista della realtà ordinaria, non esplicitamente ludica. È in questo senso, del resto, che gli etologi interpretano il gioco degli stessi animali, i quali attraverso il gioco apprendono e perfezionano le loro attitudini di caccia, difesa, attacco. Inoltre, va osservato che lo stesso lessico comune incorpora espressioni analogiche derivate dall’attività ludica. Quando qualcuno, nel contesto di una relazione delicata o critica, dice «gioca bene le tue carte» oppure «qui c’è in gioco la tua carriera» adotta un linguaggio perfettamente congruo per un contesto che, non a caso, si può presentare come competitivo, cioè con tutti i caratteri della sfida e della gara. Altrettanto, quando si dice «quello è un perdente» oppure quando, a fronte di una contesa di qualsiasi natura, si afferma «ce la possiamo giocare». Inutile poi aggiungere che, in molti casi, il gioco, soprattutto nella versione play, ha anche una motivazione legata alla curiosità o alla ricerca di novità emozionanti o comunque interessanti come nelle esplorazioni o, per altri versi, nella lettura di libri o nella visione di documentari su argomenti specifici, cercando di vincere la sfida del dubbio o dell’ignoranza attraverso il reperimento di informazione. In altri casi invece, come nei vari giochi delle carte o simili, dove le regole impediscono atti innovativi, ciò che prevale è la sfida permanente fra i giocatori e la pura ricerca del primato.

C’è poi un caso che merita particolare attenzione perché sintetizza per bene l’intersezione fra play e game, ed è il cosiddetto «gioco dei ruoli» (role-playing game). In questo gioco, come è noto, i partecipanti devono immaginare di ricoprire ruoli diversi dal proprio, mettendo in essere vicende immaginarie di varia complessità e accettando dunque la sfida di sapere decidere e agire nel migliore dei modi in situazioni arbitrariamente lontane da quelle per loro ordinarie. In fondo, si tratta della stessa situazione che caratterizza il gioco infantile come quando, per esempio, una bambina si mette nei panni della mamma in relazione alla propria bambola, assunta come la propria bambina. L’aspetto più interessante, allora, è senz’altro costituito dal passaggio dalla situazione fittizia a quella reale: quando un partecipante al gioco dei ruoli torna ad essere se stesso o quando la bambina torna ad interagire con la propria madre, che fine fanno i ruoli assunti per gioco? Di sicuro essi non vengono affatto, per così dire, rinnegati bensì, nel caso infantile, semplicemente riposti in una sorta di camera di compensazione destinata a diluirsi nel corso dello sviluppo. Nel caso del gioco dei ruoli, invece, essi avranno in varia misura confermato o rafforzato le dimensioni psicologiche e le «filosofie» individuali dei partecipanti grazie ad una simulazione direttamente dipendente dalla propria personalità.

Le circostanze nelle quali l’uomo agisce percependo come sfida la propria relazione con il mondo esterno, sono tanto numerose da ricoprire sostanzialmente la sua intera esistenza e vedono al loro centro, sempre e comunque, problemi da risolvere o realtà da svelare. È così nelle professioni e nella scienza, nelle attività esplorative e nelle arti, in quelle politiche o in quelle militari. Non sempre, naturalmente, i problemi sono tali da generare eccitazione e piacere nel tentativo di risolverli perché, non raramente, si tratta di questioni gravi o minacciose. Tuttavia, la logica attraverso la quale qualsiasi problema viene affrontato è invariabilmente la stessa, ossia quella di situazioni che l’uomo desidera modificare a proprio vantaggio, vincendo una sfida dopo l’altra perché, a ben vedere, c’è sempre qualcosa in palio.