Indovinello. Il padre è grande, la mamma è cattiva, il figlio è buono. Che cosa è? La soluzione: il padre grande è il maestoso castagno, la mamma cattiva è il riccio che punge, e il figlio buono è la dolce castagna.
Ha il nome di un antico rompicapo dal sapore nostrano, Al padri grand grand la mama stría stría i fièi bui bui, il libro del luganese Giulio Parini e del malcantonese Federico Rella. Un’accoppiata decisamente insolita – due creativi e apprezzati professionisti, il primo designer, il secondo architetto – per compiere un viaggio etnografico alla ricerca della grande civiltà perduta del castagno, oggi scomparsa nelle nebbie della nostra vorace modernità. Prima hanno cominciato progettando e costruendo mobili in castagno, ma presto le assi di legno massiccio non sono più bastate e dalla materia prima sono passati direttamente alla creatura vivente. «C’è un sacco di roba dietro di noi che non può venire dimenticata», spiegano Giulio e Federico. Per oltre un anno hanno macinato chilometri e chilometri per i boschi della Svizzera italiana, dalla Mesolcina, alla Leventina, alla Riviera, fino al Malcantone e alla Bregaglia, incontrando uomini, donne e alberi.
Aneddoti di grande suggestione, che stupiscono e commuovono allo stesso tempo. A San Vittore, per esempio, qualcuno racconta che le persone che passavano davanti al castagno si toglievano il cappello, per rispetto verso l’arbor. «L’Albero» come veniva semplicemente chiamato. Perché non c’era bisogno di aggiungere altro. Il castagno, l’albero per antonomasia. Invece le ragazze di Primadengo, sopra Faido, usavano le castagne come piccoli oracoli: dal modo in cui scoppiavano sulla brace capivano quale dei loro pretendenti dovessero frequentare. In Bregaglia, poi, una volta si diceva che da Castasegna a Soglio, passando per il castagneto di Brentan, se c’era un temporale non ti bagnavi, tanto numerosi erano i castagni.
Che cosa ne sappiamo oggi delle castagne, noi, uomini della città diffusa e dei centri commerciali? Forse questo autunno faremo qualche passeggiata nei boschi, raccoglieremo un po’ di castagne e ne faremo pure una scorpacciata. Ma quel sacro legame che per secoli, fino a poco, pochissimo tempo fa, ha unito l’uomo al castagno ci sfuggirà. «Non ce ne rendiamo conto», spiegano Giulio Parini e Federico Rella, «ma quando vediamo un vecchio castagno in un bosco, quel castagno vive perché per tutta la sua lunga esistenza è stato accudito dagli uomini. Un tempo la pianta era un membro della famiglia. Se non te ne prendevi cura, dopo un po’ si ammalava e moriva». L’uomo innestava, potava, concimava, eliminava le piante concorrenti. «Durante la nostra indagine, raccogliendo testimonianze, ci siamo resi conto di quanto fosse importante la relazione uomo-albero. Senza questa simbiosi oggi non ci sarebbero boschi di castagno e nemmeno castagne».
Hanno seguito le castagne e si sono ritrovati in un altro territorio, in un mondo di altri tempi Giulio e Federico. Un mondo che ancora resiste nascosto nelle piccole storie, nell’animo di anziani a volte timidi che parlano con i castagni («ma non ad alta voce, nè»), in chi trova ogni giorno la propria libertà nell’attaccamento ai monti («non sei libero se non sei attaccato, capisci? Ai monti, io sono attaccato ai monti»), in chi continua a mangiare castagne due volte al giorno, come una medicina («qui non c’è l’Alzheimer, in questi paesi di castagne. Io penso che siano le castagne: contengono vitamina C, come il limone e le arance, uguale»).
Perché, come il riso per l’Asia, come il mais per le popolazioni mesoamericane, come il grano per gli antichi Egizi bagnati dal Nilo, anche il Ticino ha avuto il suo fecondo Nilo, e sono i boschi di castagno che per secoli e secoli hanno donato la vita ai figli della terra. Qualcuno dice addirittura che il legame tra le valli della Svizzera italiana e il castagno, che dura da quasi duemila anni, sia tra i più floridi e impressionanti su scala europea. E ancora una volta, tutto è dovuto all’uomo: il castagno arriva da molto lontano, dalla regione del Mar Nero e oltre, e – dicono le indagini sui pollini – sono i Romani ad aver portato e piantato i primi alberi. Per migliaia di anni il castagno è stato l’albero della vita, il pane dei poveri che ha salvato migliaia di persone dalla carestia. Anche se, dice una delle testimonianze contenute nel libro, «che è il pane okay, ma che è del povero no, perché chi aveva castagne era ricco, non povero».
Si dice che gli eschimesi abbiano decine di parole per definire la parola neve. In Ticino ce ne sono decine per parlare di castagne. Per esempio, spiegano Giulio e Federico: «Per le castagne vuote, quelle che non si sono sviluppate al loro interno, abbiamo trovato ben 18 varianti dialettali diverse». Da babi a fafi, da zabiòta a bacher, da baregói a carfatul. Senza parlare delle tante denominazioni delle tante varietà di castagne. «Molti anziani che abbiamo incontrato riescono a riconoscerne almeno quattro tipi». Ma sono decine: c’è la pinca, la nera, la magréta e il torción, la piccola e dolce luvín, i verdanés, le ultime a cadere, utilizzate per fare castagne lesse.
Già nel 1981 Giovanni Bianconi scriveva che «il rapporto uomo-castagna si è oggi ridotto dal maronatt nel suo sgabuzzino al cliente che, intirizzito e intabarrato, se ne va col suo cartoccio di caldi marroni di Cuneo che hanno defenestrato le nostre castagne più piccole ma anche più gustose». Giulio Parini e Federico Rella, quaranta anni dopo, rincarano: «Che cosa è rimasto di quel mondo? Niente. Tutto è cambiato, la castagna oggi non serve più a vivere, e così purtroppo ha perso valore».
Un giorno, durante uno dei pellegrinaggi tra i boschi di castagno, Giulio e Federico hanno incontrato una donna anziana. Giulio continuava a starnutire, e nessuno capiva che cosa stesse succedendo. «“È la polverina”, ci ha detto la signora. La polvere che c’è sulla coda della castagna, che può dare reazioni allergiche forti. Suo cognato, ci ha confidato, una volta è addirittura finito in ospedale». Un’altra volta Giulio e Federico hanno visto i demoni. «Ci hanno detto “andate su a vedere i demoni”, e non capivamo cosa fossero. Poi nel bosco immerso nella nebbia abbiamo visto questi tronchi di castagno, secchi e bitorzoluti, che uscivano dalla bruma, con figure spaventose. Erano loro i demoni».
L’albero che dà vita, e che ne scandisce le tappe. Nei villaggi ticinesi suonavano addirittura le campane quando, dopo il Giorno dei morti, si poteva andare a forghín, cioè si potevano raccogliere liberamente le castagne rimaste nelle selve, anche in quelle private. L’albero che dà vita, e che si insinua nei pertugi più profondi della mentalità e dello spirito, confondendosi con la spiritualità. Una leggenda racconta come un tempo nella Valle del Vedeggio le persone vivessero felici perché le castagne erano ricoperte da una scorza che si apriva semplicemente stringendola nella mano. Un giorno però il Diavolo chiuse le castagne in ricci impenetrabili, e il Signore intervenne benedicendo i frutti che da allora si aprono con una fenditura che riproduce il segno della croce.
«A molte persone che abbiamo incontrato piace parlare delle castagne. Per molti è il ricordo di altri tempi, della loro infanzia. Ad altri invece le castagne escono dalle orecchie: ne hanno mangiate troppe…»
È molto difficile oggi rendersene conto. Ma attorno a noi, proprio fuori casa, c’è una ricchezza inestimabile. In Ticino un bosco su cinque è un castagneto, e ogni castagno ci parla di noi. Quando questo autunno mangeremo uno dei suoi frutti, facciamo uno sforzo e proviamo a sentire, in quel sapore dolce e antico, l’immensa storia del nostro territorio.