È intuitivo che parlare di natura umana non è cosa semplice e, per farlo con la pretesa di cogliere la sua essenza ultima, è bene lasciare la parola ai filosofi o ai teologi, sebbene con scarsa fiducia di scoprire verità universalmente accettabili. Anche la scienza, d’altra parte, non ha in serbo risposte definitive se non, parzialmente, sul piano strettamente fisico. È però possibile esercitarci adottando un modello col quale, quanto meno in termini comparativi con gli altri esseri viventi, si possa scorgere una sintesi di caratteristiche umane che di norma sono separatamente considerate come esclusive della nostra specie, come la coscienza, il pensiero, la creatività e così via. Per esempio possiamo adottare, in termini semplificati, il concetto di «azione» introdotto nella teoria sociologica da Max Weber e poi da Talcott Parsons, ossia qualsiasi espressione di sé che implichi relazione con altri soggetti. È dunque azione un abbraccio ma anche un atto di violenza, una decisione aziendale ma anche la pubblicazione di un testo, l’acquisto di un bene o la difesa di un valore.
Anche gli animali, ovviamente, compiono azioni ma balza subito agli occhi la loro estrema stereotipia, cioè l’esistenza, nella loro natura, di pochi obiettivi da perseguire che si trasmettono identici da generazione a generazione. La plasticità del comportamento animale consiste unicamente nel cercare, più o meno intelligentemente, di risolvere problemi immediati che ostacolino il perseguimento dell’obiettivo, generalmente riconducibile all’alimentazione o alla riproduzione. Di fronte ad una minaccia grave, tutti gli animali ricorrono ad una prevalente soluzione finale, cioè la fuga. In un articolo di un paio di anni fa (Pare che… insomma è certo, 24/9/2018) citavo una battuta di uno scrittore italiano, Giuseppe O. Longo, che risulta di estremo interesse anche in questo contesto. Longo osservava che, di fronte all’aggressione di un leone, una mandria di bufali ovviamente fugge e, arrivata in un’area più sicura, ricomincia a brucare. Anche un gruppo di uomini, se minacciato, fugge ma, raggiunto un villaggio, racconta. Non è una differenza da poco, perché il racconto costituisce un valore aggiunto alla pura azione istintiva e introduce il tema della cultura antropologica ossia dell’insieme di conoscenze, tecniche, linguaggi, valori, norme e tradizioni che caratterizzano qualsiasi comunità umana. L’aspetto più strategico della cultura, come ci ricorda Margaret Mead, consiste nel fatto che essa viene trasmessa da generazione a generazione ma non per via genetica, come accade per gli istinti, bensì attraverso azioni coordinate di educazione e socializzazione, cioè attraverso ulteriori azioni e istituzioni di ordine culturale. La trasmissione intergenerazionale è dunque una sorta di «espediente», indotto dalla natura umana, reso necessario dal fatto che la cultura non può essere trasmessa per via genetica. In effetti, come è facile capire, senza trasmissione culturale ogni generazione dovrebbe ricominciare tutto daccapo.
Quale sia la proprietà della natura umana che consente, o impone, la fantastica impresa di costruzione della cultura non è in alcun modo chiaro, anche se il cervello è sicuramente la sede più ovvia a cui pensare. In esso, insomma, risiede evidentemente qualche proprietà che spinge l’uomo, da migliaia di anni, non solo ad agire isolatamente per soddisfare esigenze di vario ordine, conoscitivo, espressivo o costruttivo, ma anche ad interagire per aumentare e condividere l’efficacia dell’azione. A questo proposito, va segnalata una recentissima, e forse abnorme, tendenza dell’intelligenza artificiale, cioè l’ipotesi tecnologica chiamata brain uploading consistente nel trasferimento di una copia del contenuto informazionale di un cervello in un computer. In questo modo la macchina sarebbe in grado di agire come il cervello originale o, più ancora, potrebbe «riversare» il suo contenuto in un altro cervello umano risolvendo radicalmente il problema della trasmissione culturale fra generazioni. Una prospettiva, questa, che non è altro se non la rinnovata illusione di poter «moltiplicare» a piacimento le abilità e le prerogative individuali, quelle degli uomini giudicati migliori, scienziati e artisti o magari inventori o filantropi, credendo, in tal modo, di contribuire al miglioramento complessivo dell’umanità. In realtà sarebbe un vero disastro poiché si metterebbe mano ad una distribuzione di personalità del tutto arbitraria e sulla base di una drastica semplificazione del problema della natura dell’uomo che, sicuramente, non consiste unicamente in informazione e intelligenza ma in più profonde e nascoste attitudini critiche e motivazioni fra loro in perenne e mutevole interazione.
Ad ogni modo, pare ragionevole sostenere che, a differenza degli altri animali, gli esseri umani presentino una natura che è anche cultura o, per meglio dire, sono naturalmente orientati alla «esternalizzazione» della propria vita interiore, fatta di idee, paure, ipotesi e progetti, dando luogo alla cultura. La cultura è dunque una costruzione non organica che, per certi versi, consiste in una espansione del patrimonio istintuale innato e, per altri, ne organizza o ne trasforma gli orientamenti elementari, come accade, in tutta evidenza, nel caso della speculazione filosofica, delle scienze o delle norme etiche.
Lo «zoccolo duro» della natura umana rimane, comunque, l’insieme di pulsioni e istinti che nascono geneticamente con lui e che condivide largamente con tutti gli animali. L’uomo, in altre parole, può rinunciare, sebbene a fatica e solo in circostanze eccezionali, alla propria cultura ma non può rinunciare al patrimonio biologico che porta costitutivamente con sé. La cosa è più che mai evidente nelle situazioni di emergenza, nelle quali larga parte delle regole e delle forme razionali cede rapidamente il posto all’istintualità. In queste circostanze la complessità della cultura viene compressa, ridotta e alla fine provvisoriamente espulsa dal ventaglio delle possibili azioni da compiere che vengono, o tornano, all’immediatezza dello stadio primordiale. In fondo, la cultura antropologica appare dunque una specie di arricchimento della natura biologica dell’uomo ed è un approdo verso il quale l’essere umano è naturalmente predisposto, ma essa è anche decisamente reversibile. La dialettica fra queste due realtà è il quadro entro il quale la natura umana si esprime, ma attraverso quali processi e con quali possibili sviluppi futuri è al di là delle nostre attuali conoscenze.