Alle nostre latitudini, la vocazione naturale del territorio è il bosco, le cui caratteristiche e i suoi aspetti strutturali sono in funzione della quota, dell’esposizione, dell’idrografia, della natura fisica e chimica dei suoli d’impianto, del mesoclima, e dell’intervento dell’uomo.
Il bosco è un composito consorzio di alberi, organismi complessi, che hanno – da specie a specie anche all’interno di ogni singola specie – una propria indole, un proprio comportamento, una differenziata capacità fisiologica di reazione ai fattori fisici e biologici, i quali possono esprimere aspetti positivi oppure negativi.
«Un bosco non è solo un insieme di alberi, non è solo la somma degli alberi, degli arbusti e delle erbe. Non è nemmeno la somma della componente animale e di quella vegetale, e della roccia e del suolo su cui cresce. Un bosco è un organismo, complesso. È il risultato di azioni e reazioni, di alleanze e competizioni, di simbiosi e parassitismo. È un alternarsi di vita e di morte, di crescite e crolli» (Zovi, 2019).
Nel canton Ticino siamo allietati dalla presenza di circa 50 specie differenti di alberi di impianto naturale, presenti dalla foce della Maggia (200 metri slm) ai 1900-2000 metri slm in Leventina e in Valle di Blenio. A questo contingente boschivo (conifere e frondiferi), che attualmente occupa più del 50 per cento della superficie cantonale, vanno aggiunte numerose e insolite specie esotiche introdotte dall’uomo in epoca più o meno recente. Si tratta di robinie (comprese le mimose), magnolie, ginkgo, liriodendri, paulownie, eucalipti, palme, ailanti, bagolari, ippocastani. Per non parlare della ricca vegetazione legnosa «da siepe»: laurocérosi, bossi, ligustri, crataegi e tuie. Per cause naturali (cambiamenti clima-tici in atto da diversi decenni), e soprattutto per cause umane (abbandono di prati, pascoli e coltivi) il bosco avanza in quota e in basso.
Assistiamo spesso al trasformarsi della sua composizione, espressione di un naturale dinamismo, un fenomeno a carattere permanente nel corso dei tempi, e non contingente. Il bosco avanza: è una espressione semplicistica e fuorviante, in quanto non prende in considerazione tutti gli aspetti di questo dinamismo, che è insito di ogni ecosistema naturale, e pertanto più difficile da indagare e da valutare.
Il bosco avanza, ma sarebbe opportuno conoscere quali specie di alberi possono prendere il sopravvento su altri, quali hanno un carattere predisponente che si impone, quali si sostituiscono ad altre specie, oppure soccombono. È un fenomeno al quale assistiamo, comune su tutte le montagne europee: dai Pirenei alle Alpi, ai Carpazi e ai Balcani, con tempi e modalità geografiche legate ai vari territori considerati, e al loro utilizzo da parte dell’uomo.
Durante i recenti millenni, da 7mila anni da oggi, il bosco ticinese ha conosciuto sostanziali modifiche: sia per cause legate alle alterne vicende climatiche che si sono succedute, sia a causa dell’influenza sempre più marcante della presenza dell’uomo sul territorio. La documentazione raccolta in 450 località nelle torbiere alpine e prealpine, e costituita non solo di pollini, ma anche di resti lignei (interi tronchi), e pigne (stròbili) di conifere, testimonia la passata presenza arborea a quote oggi totalmente prive di alberi. Inoltre, anche l’attuale ritiro generalizzato dei ghiacciai sta rivelando altri reperti preziosi, che ampliano e convalidano le nostre conoscenze.
In epoca storica, prima della progressiva e massiccia presenza umana nel mondo alpino, il limite superiore del bosco («tree-line») era più elevato di 200-400 metri rispetto alla situazione attuale. Questa è stata la diretta conseguenza di una capillare e ostinata distruzione con il fuoco del manto arboreo preesistente per ottenere sempre più ampi spazi da coltivare e sfruttare. Fino a un recente passato, nel canton Ticino il bosco occupava nelle regioni prealpine e alpine superfici di gran lunga minori rispetto ai tempi attuali. Inoltre, il bosco è stato penalizzato, sfruttato non razionalmente, e in molti casi totalmente distrutto.
Il bosco era considerato una immensa e inesauribile miniera da sfruttare: lavoro e ragioni di vita grama per intere vallate alpine e prealpine. Ricordiamo l’epopea dei borradori della Valle Pontirone, delle «acque che portavano», dei «fili a sbalzo» introdotti dai boscaioli valtellinesi, delle donne che trasportavano a spalla i sacchi di carbone di legna a Luino e a Maccagno. Troppo spesso con risvolti altamente negativi a carico delle comunità e del territorio: perdite di vite umane, frane, dissesti, alluvioni, patrimoni distrutti.
Boschi che conoscevano l’incessante morso di un esercito di capre: 63’461 nel 1866, contro le 13’494 nel 1993 (statistiche federali). La cui presenza, il vago pascolo, ostacolava la rinnovazione del manto arboreo. Infine, l’altrettanto permanente e prolungato asporto della lettiera, protrattosi fino a un recente passato con il conseguente impoverimento organico dei suoli forestali. Ma boschi che non albergavano l’imponente popolamento attuale di ungulati selvatici: cervi e caprioli, circa 20mila capi, secondo le attuali statistiche cantonali. Un fenomeno nuovo, che preoccupa per la sua invasività, fenomeno che sta generando l’insorgere di molti problemi collaterali sconosciuti in passato: di carattere sanitario (proliferazione delle zecche), forestale (danni agli alberi e alla rinnovazione), agricolo (danni alle colture e ai vigneti), infortunistico (incidenti stradali provocati dall’investimento degli animali). Si può affermare che i danni provocati dalle capre siano stati sostituiti da quelli indotti dagli ungulati.
Con il progressivo abbattimento del bosco in quota veniva a crearsi una intricata e complessa catena di cause ed effetti: fanciullette e ragazzine in età «pre-pastorizia», cioè non ancora in grado di accudire il bestiame al pascolo sui monti, erano impiegate per pulire i pascoli dall’invasione di rododendri, ginepri e ontani verdi. Pascoli sempre più estesi per poter vivere. Basti pensare che all’epoca di Lavizzari (1863) i rinomati e ubertosi pascoli della Valle Piora in Leventina erano caricati con un esercito di 466 bovini, contro i 250 capi nel 2010.
L’eccessivo pascolo generava progressivamente la formazione di una cotica erbosa continua, essenzialmente costituita di dure graminacee rifiutate dal bestiame (Nardus, o erba cervina). Col tempo, e superata la soglia critica di 45° di inclinazione dei pendii, si creava un piano di scorrimento per la formazione delle valanghe, un fenomeno pressoché sconosciuto prima della «piccola era glaciale» protrattasi dal 1500 al 1860 circa.
Possiamo schematizzare la sequenza temporale dei seguenti fenomeni: 1. abbattimento del bosco in quota; 2. formazione di aree pascolive scoperte; 3. carico eccessivo di bestiame; 4. formazione di praterie dominate da Nardus; 5. formazione di valanghe; 6. dove prima c’era il bosco: massiccio insediamento dell’ontano verde (Alnus viridis) i cui noduli radicali hanno la proprietà di fissare l’azoto; 7. arricchimento nutritizio del suolo, che predispone il ritorno del bosco in epoca attuale; 8. larici, pini cembri (abeti rossi dal basso) riprendono quota.
Ed è così che il limite superiore degli alberi (tree-line) lentamente si innalza: il bosco avanza sulle Alpi. Merita, a tal proposito, accennare ad alcuni aspetti particolari.
Nel Mendrisiotto, vaste radure sono state ricavate nel pre-esistente bosco di avornielli (Ostrya carpinifolia), noccioli, ontani e frassini per allevare qualche vacca. In valle Vedeggio e nel Bellinzonese (versante Nord) sui pascoli abbandonati da oltre cinquant’anni, si è insediata una rigogliosa boscaglia di betulle pioniere (foto). Nel Ticino centromeridionale, e con vistose infiltrazioni intravallive verso nord, una radicale trasformazione è stata realizzata – durante gli ultimi 1500 anni – attraverso la «domesticazione» del castagno, ottenuta con la sostituzione dei preesistenti boschi primari con dominanza di querce, olmi, carpini, aceri, tigli e frassini. Attualmente, dopo la cessazione della plurisecolare «cultura del castagno», si assiste a una successione e trasformazione evolutiva, che preannunzia il ritorno del bosco primario, ma con assenza di querce. Con una accentuata prevaricazione su castagni spesso plurisecolari da parte di noccioli, ciliegi selvatici, betulle, aceri e frassini.
Nella conca di Faido in Leventina, estese zone di prati da sfalcio abbandonate da decenni, vedono l’invasione di un bosco di aceri, ontani e frassini. Mettendo a confronto le foto fatte ai primi del Novecento con quelle attuali, ci si rende conto di quanto la situazione territoriale sia radicalmente mutata. Dove si trova ciò che l’uomo abbandona, torna il dominio della Natura.
Ma i tempi e le modalità di questo ritorno costituiscono un problema nuovo, perché ci troviamo tecnicamente e culturalmente impreparati nella comprensione e nella gestione di problemi sconosciuti in passato. Sì, il bosco avanza in alto e in basso. Ma, dove, secondo quali meccanismi, per quali cause, e con quali conseguenze positive e negative presenti e future sull’economia e le attività umane?
«Cent’anni bosco, cent’anni prato, e poi tutto tornerà come è stato», cantavano gli gnomi della Gran Montagna (Mario Rigoni Stern, Arboretum salvatico, 2003).