Scheda

Nato: a Berna
Età: ’antanni  (nato nel 1970)
Abita a: Londra
Lavora a: Londra
Hobby:  Sognare, preferibilmente sulla mia chiatta ormeggiata sul canale che attraversa Londra, costeggiando il Tamigi
Rimpianto: Nessuno
Sogno nel cassetto: Poter continuare sulla strada avviata trent’anni fa
Amo: mia moglie, che è una santa in terra
Non sopporto: chi usa un titolo professionale e una cravatta per darsi arie. Abbiamo tutti lo stesso valore nella società
La mia foto preferita: la ragazza afgana sulla copertina del «National Geographic». Non quella originale, di una ragazza bellissima, ma quella recente, di una donna di mezz’età reduce dal regime dei Talebani.  Perché le fotografie più famose sono spesso un’idealizzazione che nasconde una realtà diversa. La realtà non va idealizzata, va conquistata.

 

TRE MOMENTI CHIAVE DI UNA VITA

Avv. Noseda, ha a disposizione 666 battute per illustrare tre momenti topici della sua vita:

1)     All’età di 27 mi venne chiesto di presenziare a un incontro con un signore che oltre a una fiorente industria ereditò il vizio della cocaina.  La sua richiesta era di proteggerlo contro sé stesso, al che il mio capo (l’avv. Bruno Becchio, che aveva studiato a Oxford con Tony Blair) menzionò la parola trust. Caddi dalle nuvole (e dal cavallo sulla strada per Damasco).

2)     Di fronte al Parlamento europeo mi resi conto che il tutto partì da una telefonata al comitato privacy del Consiglio d'Europa. Il che dimostra che la fortuna aiuta chi la cerca. Che è poi quel che mi dice mia moglie quando mi lamento per non aver vinto al lotto. «Ma hai comprato il biglietto?» mi chiede sempre mia moglie…

3)     Aver trasformato una serie di cause legali «ostiche» in una campagna mediatica che fa discutere i cittadini sul valore del diritto alla privacy nel mondo del post-segreto bancario. Con discreto successo che spero si replichi in tribunale.

 

 


Il bis-avvocato senza giacca e cravatta

Incontri (5) - Insegna al King’s College e vive a Londra – con moglie, due figli e un gatto – da oltre 20 anni, ma Filippo Noseda in realtà è momò al 100%
/ 04.07.2022
di Matilde Casasopra

Non capita tutti i giorni di incontrare un bis-avvocato, ovvero uno che è avvocato, con brevetto, in Svizzera e che è avvocato, con brevetto, nel Regno Unito. Se poi quest’avvocato si occupa principalmente di trust e pianificazione patrimoniale in un momento storico che coincide con sanzioni che prevedono, un po’ ovunque nel mondo, il blocco dei capitali di molte persone, ecco che l’incontro si fa ancora più interessante. Senza contare che, questo bis-avvocato, è visiting professor al King’s College di Londra ed è associato a uno dei maggiori studi d’oltre Manica, il Mishcon de Reya. Il suo nome? Filippo Noseda, momo verace, moglie islandese (Sigrún), tanta voglia di scoprire il mondo e tra tutti i sogni nel cassetto uno su tutti: fare l’avvocato ma… senza giacca e cravatta.

Avv. Noseda, perché essere socio di uno studio a Londra e non in Ticino o in Svizzera?
L’opzione tranquilla, dopo aver conseguito nel 1995 la laurea in legge a Zurigo, sarebbe stata – lo ammetto – quella di tornare in Ticino. Mio papà era conosciuto e mio zio aveva il suo studio e quindi presumibilmente avrei potuto fare carriera, ma… la voglia di tornare non c’era e i miei sogni mi portavano altrove. Così ho deciso di conseguire il brevetto a Zurigo. Un anno in tribunale e un anno di pratica in uno studio locale per imparare la professione, ma anche lo svizzero-tedesco visto che, senza quello, perdevo tutte le cause.

Insomma, stava preparandosi a fare carriera a Zurigo…
Non mi preparavo tanto a far carriera quanto piuttosto a capire cosa volevo fare da grande ed è così che, nonostante la strada sembrava essere segnata – buon posto di lavoro nella città sulla Limmat con magari casa di vacanza in Ticino per mantenere le radici – la mia natura inquieta mi portava a desiderare altro. Soprattutto a non desiderare lo schema tradizionale dell’avvocato svizzero: giacca e cravatta, cipiglio serio, conoscenza approfondita del Codice Civile svizzero e magari un po’ di politica per aiutare gli altri, ma anche per farsi un po’ di pubblicità. No. Non era la mia indole. A 30 anni volevo ripartire da zero. Cambiare aria, cambiare il mondo strada facendo e imparare cose nuove.

Perché proprio Londra?
Perché il diritto comparato è sempre stato una mia passione e il diritto anglosassone, fondato più sulle sentenze che sulle leggi, m’intrigava molto. Così con moglie incinta e gatta al seguito – allora c’era Bólla (che in islandese vuol dire Cicciottella), adesso c’è Tumi – ho caricato la macchina e sono partito per Londra. Volevo imparare cose nuove e ancora mi sorprendo quando mi rendo conto che oggi insegno all’università il corso di diritto di trust che avevo seguito al King’s College. Insegno la materia che avevo scelto da studente completamente ignaro del tema.

E se le chiedessi di dirmi cos’è il trust?
Le direi quello che dico agli studenti, ovvero che ogni Paese ha un proprio concetto – e conseguente ordinamento giuridico – in materia di trust che, in sintesi, è un’intestazione di proprietà sulla base della quale un esperto amministra e cura gli interessi dei beni a vantaggio dei beneficiari prescelti o ancora da individuare di un soggetto terzo che glieli ha affidati. Oggi come oggi è spesso un «aggeggio» fiscale usato e abusato. La Svizzera ha ratificato, nel 2007, la Convenzione dell’Aja 1985 sul riconoscimento di trust stranieri e al momento il Consiglio federale sta considerando l’introduzione di una legge di trust «made in Switzerland» che potrebbe entrare in vigore nel 2024.

Quel che però non va dimenticato è che il trust è uno strumento giuridico del diritto anglosassone e che quindi il trust svizzero non sarà mai uguale a quello anglosassone. Ai miei studenti, per entrare in tema, propongo sempre il parallelismo polenta-arepa evidenziando i punti di contatto – entrambi piatti tipici, l’una della cucina lombarda l’altra della cucina colombiana – e la comune origine: il mais. Quando si capiscono le similitudini si passa alle differenze, ma… con cognizione di causa.

La Svizzera l’ha coinvolta nel processo di definizione della nuova legge?
Sì. Ho avuto modo di esprimermi sull’avanprogetto per l’introduzione di un trust svizzero nel Codice delle obbligazioni (più precisamente sul «Titolo ventiseiesimo secondo (bis): del trust»). È stato fatto un buon lavoro, ma, come ho avuto modo di osservare in un recente articolo, il diritto anglosassone e quello svizzero non sono la medesima cosa e quindi, pur essendovi delle affinità, esistono differenze che non possono essere ignorate. Diciamo che nella mia situazione di – come mi ha definito lei – bis-avvocato e quindi «giuridicamente bilingue», sono facilitato nel compito.

Torniamo agli anni della sua… inquietudine. Lei arriva a Londra, si iscrive all’università, si laurea e poi?
Poi, quando ho finito il corso, mi restano 2’300 sterline in tasca. Questo perché una famiglia di quattro persone fagocita tutti i risparmi (mia figlia Elín è nata durante gli studi seguita da Ian poco dopo e in più c’era Bólla, la gatta). Ciononostante, con una buona dose d’incoscienza e una moglie comprensiva ho firmato il nuovo contratto d’affitto di 12 mesi confidando nel motto dell’«io, speriamo che me la cavo». Ho accettato un lavoro qualunque per non perdere il visto (a quei tempi non esistevano ancora i bilaterali UE-Svizzera) e ho sostenuto gli esami di solicitor studiando di notte mentre di giorno continuavo a collaborare con lo studio di Zurigo (che mi rivoleva indietro) per pagare le bollette. Il primo traguardo l’ho tagliato nel 2003 quando ho cominciato a lavorare come solicitor in Inghilterra.

È così facile trovare lavoro a Londra?
Non proprio. Anzi, per niente. I colloqui per entrare in studio sono stati brutali e, pur di inserire almeno un piede, ho fatto loro un’offerta che non potevano rifiutare (come nel film Il Padrino con Al Pacino): nessun periodo di disdetta e stipendio minimo. A condizione che gli stessi termini valessero anche per me: ossia la possibilità di lasciare lo studio senza preavviso nel caso in cui non mi piacesse come mi trattavano. Sono ripartito da zero con due lauree in tasca e con uno stipendio da fame. Dopo tre anni sono stato promosso a socio e qualche anno dopo sono diventato responsabile di circa 70 avvocati inglesi e americani che all’epoca costituivano il più grosso dipartimento d’Europa dedicato alla clientela privata.

Vien da dire: obiettivo centrato. Sogno realizzato.
No. Magari! Io purtroppo rimanevo irrequieto. Non volevo solo fare carriera. Volevo imparare e far funzionare il cervello. È così che sono arrivato al King’s College come visiting professor quando i due professori con cui avevo studiato trust sono stato promossi alla carica di giudice. Ossia il corso è passato da due professori a uno solo, stile «multipack in versione concentrata». E poi c’era un’altra cosa che volevo fare: difendere il diritto alla privacy e il contratto sociale tra cittadino e governo in campo di trasparenza fiscale.

Anche in questo caso ho dovuto intraprendere una mini rivoluzione visto che lo studio nel quale lavoravo non capiva le questioni di diritto europeo e costituzionale che in Europa sono al centro del contratto sociale del dopoguerra (il diritto alla privacy è stato introdotto con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo – CEDU – firmata a Roma il 4 novembre 1950, quindi a distanza di 5 anni dagli orrori della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto).

Non poteva difendere il diritto alla privacy in Svizzera?
Difficilmente visto che, nel 2006-2007, la Svizzera era al centro della bufera per via delle rivelazioni degli scandali nel settore bancario che culminarono nelle sanzioni multi-miliardarie delle quali ancora si portano oggi le conseguenze.

E com’è andata quest’ennesimasfida?
Ho cercato e trovato la strada giusta. Lo sbocco si è aperto con una telefonata al comitato sulla privacy del Consiglio d’Europa che è sfociata in un invito ad apparire come esperto a Strasburgo nel 2016. Da lì sono poi riuscito a creare una campagna tecnica e mediatica che mi ha portato davanti al Parlamento europeo nel 2019 e nel 2020 e in seguito a intentare causa contro quattro governi: quello britannico sul FATCA (lo scambio di informazioni con gli Stati Uniti), quello austriaco e quello tedesco sul CRS (lo scambio di informazioni tra un centinaio di Stati al di fuori degli Stati Uniti) e quello lussemburghese sui registri pubblici sulla titolarità effettiva di società e altri enti.

Non sto a raccontarle caso per caso, ma posso dirle che la questione della compatibilità dei registri pubblici con i diritti fondamentali, al centro della causa al governo lussemburghese, è ora davanti alla Corte europea. Inoltre, per assicurare il giusto scrutinio dell’operato dell’UE e dell’OCDS abbiamo deciso di pubblicare le nostre lettere (un centinaio circa) online e la cosa è approdata ai giornali anglosassoni, con articoli su «Financial Times», «Economist», «TIME Magazine» e «Bloomberg».

Si può dire che ha realizzato i suoi sogni?
Sì. Anzi no. Oppure forse, chissà. Sicuramente ho realizzato, soprattutto, il mio sogno di essere avvocato senza giacca e cravatta. Quel che importa è il lavoro, l’energia e i risultati, non l’uniforme. L’abito non fa il monaco e… neppure l’avvocato. Per il resto, sto ancora rincorrendo i miei sogni, in parte non ancora del tutto articolati. Magari tra 10 anni ne riparliamo…