I vent’anni del Progetto Genoma Umano

Ricerca - La prima «mappa» dei geni dell’uomo ci ha permesso di conoscere meglio il nostro DNA con importanti esiti pratici
/ 10.01.2022
di Sergio Sciancalepore

L’impresa è paragonabile a quella che ha portato l’uomo sulla Luna, nel 1969: un formidabile impiego di uomini, tecnologie, conoscenze scientifiche di vario genere e tantissimi soldi. Con una differenza. Invece di percorrere centinaia di migliaia di chilometri, il viaggio è avvenuto dentro il corpo umano, anzi nel cuore della cellula, il nucleo, dove stanno i geni. L’impresa, conclusasi vent’anni or sono, è il Progetto Genoma Umano (Human Genome Project, HGP).

Tutto iniziò nel 1985, da una proposta del Nobel per la medicina Renato Dulbecco (1914-2012): per il progresso della medicina e della biologia – sosteneva – è indispensabile la conoscenza di tutti i geni umani, il cosiddetto genoma. Non solo. I risultati di questo Progetto devono essere accessibili a tutti gli scienziati, perché i geni sono patrimonio dell’umanità. Spesa allora preventivata, 300 miliardi di dollari per dieci anni di lavoro.

300 anonimi donatori offrirono le loro cellule e nel 1990 iniziarono i lavori di un consorzio pubblico internazionale guidato dagli Istituti Nazionali di Sanità degli Stati Uniti (National Institutes of Health). Nel 1998, Craig Venter – uno dei ricercatori dell’HGP – in disaccordo con i metodi usati e per la lentezza dei lavori, fonda una società privata, la Celera Genomics, in concorrenza con quella pubblica. La Celera introduce nuove tecnologie, fa ampio uso dell’informatica per trattare e immagazzinare i milioni di dati delle sue ricerche, ma si fa strada il timore che Venter voglia «privatizzare» la ricerca sul genoma, brevettando le sue scoperte.

Nel 2000, con la mediazione del primo ministro britannico Tony Blair e del presidente USA Bill Clinton, le due rivali si accordano: le rispettive ricerche andranno avanti con un continuo scambio d’informazioni. Contemporaneamente, partono altri progetti per conoscere il genoma di animali (ratti per sperimentazioni, batteri, virus) e vegetali di particolare importanza per l’alimentazione, come il riso. Nel 2001, sulle riviste scientifiche «Nature» e «Science», sono pubblicati i risultati delle ricerche dell’HGP e di Celera: è la prima mappa completa (meglio, quasi completa) della sequenza del genoma umano. Da allora sono trascorsi già vent’anni, da poco conclusi.

Che cosa significa «sequenza»? I geni contenuti nei cromosomi sono fatti di DNA (acido deossiribonucleico) e sono formati da quattro sostanze chiamate nucleotidi: adenina (A), timina (T), citosina (C) e guanina (G). Il DNA è un filamento (anzi due filamenti appaiati) come una collana: le sferette (nel DNA umano sono circa tre miliardi) di questo filamento sono le quattro molecole (A, T, C, G) disposte in un certo ordine. In un gene, c’è una sequenza, per esempio, AATCGAGG… eccetera, in un altro gene è GGGCTAAT… eccetera: ogni gene ha una sequenza diversa che forma un «codice» genetico, il quale serve per costruire le migliaia di proteine che formano e fanno funzionare gli esseri viventi.

Un gene, una proteina: sequenziare un genoma significa conoscere – per ogni gene – l’ordine in cui sono disposte A, T, C e G. In questo modo è possibile avere una mappa del genoma di ogni vivente: sappiamo su quali cromosomi stanno i geni, in quale punto dei vari cromosomi, la sequenza di ciascun gene, la proteina che producono. Una precisazione. Nel 2001 non si è chiusa un’era: ovvero, ora che conosciamo il genoma non siamo a posto. Dal 2001, infatti, è iniziata l’era della Post-genomica: i dati del sequenziamento vanno verificati a caccia di eventuali errori; le sequenze vanno interpretate, cioè si deve scoprire quali proteine codificano; controllare se ci sono ancora geni da scoprire; di fatto quest’anno sono stati scoperti altri 115 geni sconosciuti.

A proposito: quanti sono i geni umani? Allo stato attuale circa 21mila, meno dei 100mila ipotizzati. Una curiosità. La cipolla ha più geni dell’uomo, circa 60mila: come mai? La spiegazione sta nell’organizzazione dei geni. Nell’uomo, certamente più complesso della cipolla, i geni sono diversamente organizzati, hanno una disposizione più «razionale», più efficiente.

Moltissimi i risultati pratici di questo immenso lavoro di ricerca, ed è per questo impossibile citarli tutti; ci limiteremo a ricordarne un paio. In primo luogo, è stato possibile svelare un enigma che da decenni era un rompicapo per i genetisti. Solo il 2 per cento del DNA serve a codificare proteine: e il restante 98, a cosa serve? Non si aveva nessuna idea, tanto che qualcuno propose di chiamarlo «DNA spazzatura». Altro che spazzatura. Si è scoperto che questo DNA non codifica proteine ma svolge una funzione determinante nel regolare l’attività dei geni codificanti. Inoltre, produce minuscoli frammenti di RNA (acido ribonucleico), i cosiddetti «micro-RNA», fondamentali nel regolare la sintesi delle proteine: in anni recenti, si è scoperto che i micro-RNA hanno un ruolo importante nello sviluppo dei tumori, delle malattie cardiovascolari e altre ancora.

In oncologia, è stato possibile individuare geni che – a causa di una mutazione della sequenza – hanno un ruolo nel causare tumori: è il caso dei geni che provocano le leucemie o dei geni ereditabili BRCA1/2 che aumentano il rischio di un tumore della mammella e dell’ovaio. Grazie alle ricerche svolte nell’HGP, è stato inoltre possibile sviluppare un metodo di classificazione dei tumori, in base alle caratteristiche genetiche. I tumori del colon, per esempio, possono essere suddivisi in sottotipi con diverse caratteristiche genetiche: analizzandole, è possibile sapere a quale farmaco è più sensibile un sottotipo genetico o anche progettare farmaci efficaci contro i sottotipi di tumori.

Un’ultima considerazione riguardo l’importanza dell’HGP. Se è stato possibile avere nel giro di pochi mesi vaccini efficaci contro il coronavirus causa del COVID-19, lo si deve proprio alle tecnologie e alle conoscenze sviluppate nel corso dell’HGP: nel giro di poche settimane, infatti, i virologi e i genetisti hanno potuto mappare il genoma del virus (e delle sue varianti), identificando il bersaglio da colpire con i vaccini, la proteina «spike», quella che permette al virus di infettare le cellule.