I tumori nell’apparato urogenitale

Medicina - Superare il tabù di genere sulla prevenzione per una diagnosi precoce
/ 28.06.2021
di Maria Grazia Buletti

Tumore prostatico, della vescica e dei reni toccano l’apparato urogenitale e meritano particolare attenzione perché piuttosto comuni. «La neoplasia prostatica è un tumore urologico molto frequente: prima diagnosi in assoluto nei maschi sopra i 50 anni e seconda causa di morte; il tumore alla vescica rappresenta la settima causa di morte nella popolazione maschile, mentre quello del testicolo è per fortuna più raro, anche se sovente diagnosticato nella popolazione maschile fra i 20 e i 40 anni», l’urologo Andrea Gallina è primario all’Ospedale Regionale di Lugano e parla di «numeri stabili da anni, che mostrano una chiara epidemiologia dei tumori urogenitali, per i quali oggi si può comunque vantare un’informazione migliore, adeguata e capillare, insieme alla divulgazione scientifica e all’avanzamento delle tecniche diagnostiche e terapeutiche».

Tutto passa dalla condizione essenziale di una diagnosi precoce: «Lo stadio in cui si diagnostica un tumore fa la differenza sulla prognosi!». Egli punta il dito sui tabù di genere che ancora bisogna infrangere perché l’uomo giunga dal medico in tempo per riuscire a diagnosticare un tumore di questo tipo in fase iniziale. «Viviamo ancora una netta contrapposizione fra maschi e femmine per le quali è normalissimo recarsi dal ginecologo già dalla giovane età e per tutta la vita, sottoponendosi a quei controlli periodici (ginecologico e mammografico) a beneficio di una concreta prevenzione e dell’individuazione di eventuali neoplasie in fase estremamente precoce». Sottolineando la ben radicata consapevolezza nell’ambito femminile dei potenziali rischi, lo specialista lamenta invece ancora una mancanza di adeguata sensibilizzazione maschile verso la prevenzione. Cosa che porta a minimizzare eventuali sintomi da parte dell’uomo: «Atteggiamento imputabile all’alone di tabù che ancora associa i problemi urologici a una perdita di identità culturale dell’uomo legata alla virilità». Ma con questi tumori non si scherza.

La prognosi è migliore tanto prima viene individuata la neoplasia, tanto più che l’avanzamento delle tecniche mediche permette una buona presa in carico. «Così come, ad esempio, avviene con lo screening mammografico per la donna e con il tumore al colon per il quale si effettua lo screening a partire dai 50 anni». Per analogia, anche l’uomo dovrebbe imparare a non nascondere i sintomi per un pudore fuori luogo dettato dal retaggio culturale. Un grosso limite facilmente superabile: «Più parliamo di queste patologie, più le conosciamo e meno ci spaventano».

La prevenzione è essenziale: «Senza fattori di rischio o di famigliarità, a partire dai 50 anni si consiglia una visita urologica all’anno con prelievo di sangue: un modo per ridurre significativamente il rischio di una diagnosi tardiva di tumore alla prostata. Mentre nei pazienti con famigliarità bisogna iniziare dai 45 anni».

Oggi la multidisciplinarietà della presa a carico permette alle differenti figure specialistiche di analizzare ogni singolo eventuale caso tumorale diagnosticato: «Ne consegue un approccio individualizzato e idoneo a offrire la migliore soluzione con minore impatto sulla qualità di vita, con una migliore gestione della patologia e un aumento della sopravvivenza». La visita di prevenzione, soprattutto per il tumore prostatico, è essenziale anche per il fatto che si tratta di un tumore subdolo che il medico definisce «killer silenzioso» perché non dà segni e sintomi particolari: «Ma si nasconde dietro gli stessi sintomi dell’ipertrofia prostatica benigna e quando i segni specifici si dovessero manifestare sarebbe troppo tardi perché essi sono legati alla fase metastatica della malattia (ndr: dislocazioni del tumore avanzato)».

Ciò non significa che una prostata ingrossata (che ad esempio fa alzare di notte a urinare più spesso) sia sinonimo di tumore, ma dovrà essere valutata dall’urologo che esprimerà il rischio, basso o significativo che sia. Per il tumore della vescica, va sempre indagato ogni episodio di sangue visibile nelle urine: «Unico segno visibile di un tumore potenzialmente devastante, con la prognosi peggiore in assoluto dell’apparato urologico, ma se si riesce a diagnosticare precocemente è possibile limitare trattamenti invasivi che alterano la qualità della vita del paziente». Anche qui, rivolgersi al medico per dei controlli periodici permette di scongiurare un decorso ben più infausto.

Infine, nel tumore renale non esistono segni o sintomi specifici: «Molto spesso viene diagnosticato in modo incidentale perché fa male un fianco, c’è una colica della colecisti e l’ecografia individua una piccola lesione al rene. Ciò permette però di salvare delle vite perché all’ecografia faranno seguito approfondimenti medici ed esami specifici che caratterizzano la lesione e la relativa scelta terapeutica adeguata».

A questo proposito, chiediamo lumi al dottor Gallina (specializzato in chirurgia robotica) sul trattamento chirurgico che dice essere «spesso parte integrante della terapia»: «La chirurgia robotica ha ridotto l’invasività, diminuendo il carico del fisico e con gli stessi risultati finali della chirurgia convenzionale». Ma non è la panacea generale, malgrado la migliore prestazione dovuta al braccio robotico estensore della capacità, la migliore visibilità, maggiore mobilità degli strumenti, «il grande chirurgo è colui che dà l’indicazione giusta, per la patologia giusta, per il paziente idoneo all’intervento sulla neoplasia in questione; non esegue un intervento molto difficile se non è il momento giusto. Perciò oggi la multidisciplinarietà, (ovvero la cooperazione fra diverse conoscenze mediche di altissimo livello) rappresenta il centro nevralgico del trattamento delle neoplasie urologiche».

L’apertura al lavoro multidisciplinare specialistico include urologi, radioterapisti e oncologi ma coinvolge anche i servizi di radiologia e patologia, con l’apporto fondamentale di infermieri dedicati e l’indispensabile supporto psicologico che riveste un ruolo cardine nei pazienti che affrontano diagnosi oncologiche. Un approccio che rappresenta una nuova arma a beneficio del paziente che, a sua volta, ha il compito di fare un passo avanti ed entrare nell’ottica della prevenzione. Senza tabù di sorta.