Molti anni fa, da studente, mi era capitato fra le mani un volumetto di Mario Agliati, I due maestri del ’71, dedicato alle figure di Francesco Chiesa e Giuseppe Motta. Nato a Sagno, il primo, fu uno dei pochi letterati ticinesi capaci di varcare i confini nazionali nella hit parade del gradimento.
Airolese, il secondo, a prescindere dalle ideologie e dagli orientamenti politici, fu un eccellente statista, grande sostenitore della Società delle Nazioni, cinque volte presidente della Confederazione. Ricordo che mi stupii per come, in un fazzoletto come il nostro Cantone, potessero nascere nello stesso anno, due personalità in grado di travalicare i confini nazionali con le loro parole e con le loro opere. Pochi anni più tardi, il mondo vide brillare la stella di due giovani sportivi svedesi, nati entrambi nel 1956: Ingemar Stenmark e Björn Borg.
Quando i miei amici, nati nello stesso anno, esaltavano le magiche imprese dei loro coetanei, io, di due anni più anziano, potevo rispondere solo con il mio omonimo Giancarlo Antonioni, uno degli artefici del Mondiale azzurro dell’82, approdato a fine carriera a Losanna; e con Marco Urlodimunch Tardelli, lui pure eroe della finale madrilena, con appendice elvetica a San Gallo. Mi rendevo conto che, non potendo ancora smanettare su internet alla ricerca di fenomeni Nba o Nhl nati nel mio stesso anno, tra me e loro non c’era partita. Quindi mi arrendevo, aggiungendo, in pieno trip da Led Zeppelin o Pink Floyd: «Ok aver vinto, però tenetevi anche Miguel Bosè, voi bravi ragazzi del ’56».
Questa idea di una strana congiunzione astrale in grado di far nascere, nello stesso anno, nello stesso luogo, personalità fuori dal comune, mi si è di nuovo materializzata dopo il 2000, quando nel firmamento dello sport mondiale ha cominciato a brillare la stella di tre giovani campioni svizzeri: Simon Amman, Fabian Cancellara, Roger Federer, in puro ordine alfabetico, tutti nati nel 1981. Insieme hanno raggranellato 7 ori olimpici e 14 titoli mondiali (compresi i Masters), senza contare gli Slam, le Coppe del Mondo, la Davis, le Classiche, eccetera. Per dirla con un termine abusato: tanta roba!
Ho avuto il privilegio di incontrarli tutti e tre: Cancellara più volte, anche in contesti non strettamente professionali; Amman, pure, ma con un coinvolgimento emotivo minore; Federer una sola volta, per una lunga intervista radiofonica, che rimane una delle highlights della mia carriera lavorativa.
Ricordo ancora quando, dopo averlo a lungo inseguito, mi concesse un’intervista in cui mi chiedeva fra l’altro di Cancellara, che aveva conosciuto ai Giochi di Atene e che stimava molto.
Pensavo di incontrare un ragazzino superficiale, mi ritrovai di fronte un uomo di 25 anni, maturo, vivace, sensibile, consapevole del suo ruolo di personaggio-immagine. Era il numero 1 al mondo nella sua disciplina, frutto di migliaia di ore di lavoro, ed era aperto a ciò che ruotava attorno a lui, attento alla realtà nazionale e internazionale. La sua fondazione a favore dei bambini delle Township sudafricane è la migliore testimonianza dei suoi slanci e della sua empatia.
Credo che anche lo sviluppo della sua carriera sportiva, altalenante, ma sempre su livelli eccelsi, sia figlia del suo modo di essere. Roger è un uomo sereno. Non gli importa di uscire dalla Top 10, non se ne fa un cruccio se i rivali storici a volte lo sconfiggono. Ancora pochi giorni fa, a Cincinnati, è stato testimone attivo del come back di Novak Djokovic. Federer non ha ombre. Sa che può tornare, anche da lontano. È tornato a vincere degli Slam. È risalito, sia pure per breve tempo, al primo posto della classifica mondiale. Fino a quando la consapevolezza di potercela fare lo accompagnerà, noi ci godremo il privilegio di vederlo recitare sui campi più prestigiosi del circuito.
Anche la carriera di Simon Amman ha vissuto una parabola simile. Quasi un Dio quando era giovanissimo, dopo il doppio oro olimpico del 2002 a Salt Lake City, osannato da mezzo mondo, ospite di riguardo allo Steve Lettermann Show, uno dei Talk culto negli Stati Uniti, Flying Simi è ripiombato pesantemente al suolo, soprattutto ai GO di Torino del 2006, quando era atteso a una conferma. Il suo è stato un atterraggio di emergenza, al punto da dover chiamare in causa, non un meccanico, bensì uno psicologo. Io l’ho conosciuto poco dopo, quando ha ripreso a decollare. Puntuali sono arrivati il titolo mondiale del 2007 a Sapporo, il doppio oro di Vancouver 2010, la Coppa del mondo, e persino un titolo iridato nel volo con gli sci, ambito a lui storicamente poco congeniale.
Diversamente da Roger Federer, il nostro Harry Potter, da alcuni anni non vola più. Tuttavia non molla, sia pure nella consapevolezza, credo, che possa puntare a piazzamenti attorno alla decima posizione. I maligni diranno che lo fa per una semplice questione finanziaria. Io non lo credo, poiché gli introiti di un saltatore sono di gran lunga inferiori a quelli di altri sportivi. Sono piuttosto convinto che la sua forza e la sua volontà di proseguire nel semi-anonimato abbia un nome: amore!
Che dire infine di Fabian Cancellara? Spartacus è una lunga ed entusiasmante tappa della mia carriera professionale. L’ho visto vincere a Sanremo, mi ha fatto sgolare quando ha fatto suoi la Roubaix e il Fiandre, ne ho cantato le gesta in occasione dei suoi quattro Mondiali a cronometro, ero presente a Rio de Janeiro quando ha sgrezzato e tagliato l’ultimo diamante. In quell’occasione giunsi al limite del pianto. Pochi credevano nel secondo oro olimpico.
Da un paio d’anni le sue poderose cosce non sembravano più in grado di stantufare come un tempo. Tuttavia il treno di Berna voleva ancora correre su binari roventi. Lo ha fatto all’altro capo del mondo, lasciando pietrificati il suo erede, Tom Dumoulin, e l’immenso Chris Froome. Poi ha detto stop, come il Big Ben di Portobello. La vita offre altro. Qualcuno ha espresso rammarico. Altri hanno sperato che si rimettesse in gioco, come Roger, che è tornato ai vertici, o come Simon, che soffre e lotta. Ma Fabian non ha mai vacillato. Chiamatela pure cocciutaggine, lui è bernese con babbo di origini lucane, gente di carattere; io la considero semplicemente un’altra forma di amore nei confronti di ciò che è stato: un passato che non si potrà più rivivere, ma che si potrà ricordare nel tempo, con gioia, tenerezza, orgoglio.