I like che ci imprigionano

Social network – Facebook tende ad offrire all’utente solo quello che l’algoritmo ha verificato piacergli, il rischio è di essere isolati in una bolla cognitiva
/ 05.12.2016
di Enrico Morresi

Con la diffusione delle reti sociali (social network) la comunicazione tra le persone è aumentata moltissimo. Anche i media tradizionali, come i giornali e le stazioni radio e televisive, hanno capito che Google e Facebook aumentano le loro capacità di contatto (Facebook raggiunge potenzialmente 1,8 miliardi di individui): perciò promuovono i loro siti, pubblicità compresa, anche sulle reti sociali. Quasi tutti i giornali vi sono presenti con la loro edizione elettronica.

L’accesso all’informazione via Internet si situa dunque in parallelo con la continua erosione della circolazione cartacea, e in qualche modo un fenomeno compensa l’altro. Non conosco i dati relativi alla Svizzera italiana: posso immaginare che il cambiamento di abitudini, qui, sia più lento e non abbia ancora inciso fortemente sulle cifre della tiratura dei giornali. Ma altrove il gioco sembra fatto! Lasciamo perdere gli Stati Uniti, dove le testate tradizionali sono diminuite drasticamente di numero e si sono piegate senza condizioni alla sfida del digitale. «Le Monde» ha pubblicato il 23 settembre le cifre che riguardano la Francia, dove, ora, la lettura dei quotidiani su Internet raggiunge il 49% del consumo totale. La lettura su Internet aggiunge 86 lettori supplementari a ogni 100 copie stampate: un balzo in avanti reale per la diffusione.

Rimangono varie questioni aperte. Aprendo il computer possiamo provare fastidio che il sito ci imponga venti secondi di pubblicità prima di mostrarci il filmato allegato alla notizia. La preoccupazione dell’editore è tuttavia un’altra: non tutta la pubblicità che egli lancia sul web passa, per esempio, su Facebook. L’ex direttore del «Guardian», Alan Rusbridger, si lamenta che agli incassi digitali del giornale (stimati 100 milioni di sterline l’anno) manca un quinto del totale perché «Facebook con il suo algoritmo pone un filtro tra quello che noi facciamo e come la gente lo percepisce». Su come funziona l’algoritmo di Facebook di recente si è aperto almeno uno spiraglio e stavolta interessa da vicino anche noi utenti-lettori, che semplicemente desideriamo un’informazione corretta.

In matematica gli algoritmi servono per semplificare i calcoli, per esempio quando si deve moltiplicare o dividere entità molto grandi. A Facebook servono per quantificare quanto importante per gli utenti sia un determinato messaggio (o una notizia, se parliamo di media). Gli algoritmi tengono sotto controllo un’enormità di dati. Si parla ormai di 3 miliardi di clic ogni giorno, di 30’000 miliardi di pagine, 350 milioni di foto, 4,5 miliardi di like (dati forniti da Dominique Cardon, À quoi rêvent les algorithmes?, Seuil, Parigi 2015). Gli algoritmi sono dunque necessari, ma non sono neutri: possono essere indirizzati a fini diversi. L’impiego più semplice può essere semplicemente rivolto a un fine quantitativo: questo tema, questo avvenimento, interessa molto, quell’altro meno. Gli algoritmi possono pure essere orientati a verificare le preferenze dell’utente, per esempio assegnando una gerarchia alle informazioni e alle notizie: a Carletto interessa l’Italia, a Mohammed interessa il Pakistan.

L’algoritmo può fare in modo, perciò, che l’offerta sia tagliata su misura: vagliando i dati disponibili in rapporto con le tue preferenze, farà in modo che risulti in evidenza, quando apri il sito, quello che più interessa a te, oppure che è vicino alle tue idee. Può essere addirittura la quantità dei «mi piace» su cui hai cliccato a decidere che cosa Facebook mette in cima all’offerta. Il calcolo è raffinato al punto che l’offerta è vicina a essere personalizzata.

Cambiamo fronte. I giornali hanno una morale? Qualcuno sì, qualche altro no, chi più, chi meno. La pubblicità, per esempio, segue il consumo. Ma il giornalismo ha costruito la propria credibilità adottando, accanto a normali criteri di selezione commerciali, anche qualche criterio etico. Il servizio pubblico, per esempio, deve rispettare un codice dell’informazione iscritto nella concessione. 

Non si può dire, naturalmente, che Facebook non abbia cuore, né ragione. Di recente, un algoritmo del network tarato (diremmo noi) sul divieto di certe immagini aveva dato l’ostracismo alla famosa foto della bambina bruciata dal napalm in Vietnam. Perché? Perché era nuda. Ci sono state proteste e l’immagine è stata ripristinata, a prova che un intervento correttivo del dato matematico è sempre possibile. Si è avuta dunque la prova che Facebook si preoccupa di espellere immagini di violenza, di sesso, di crudeltà. Ma questo vale per una foto che interessa milioni: varrà anche per uno scambio di immagini in un gruppo di adolescenti? Episodi drammatici di cyberbullismo hanno dimostrato che non è facile togliere dalla circolazione un’immagine quando vi è stata messa.

Il punto è che Facebook (ma anche Google) non ci dicono a quale criterio, attraverso gli algoritmi, essi sottopongono i big data di cui dispongono. Tu apri l’edizione cartacea del «Giornale del Popolo»: sai che è un giornale cattolico e capisci perché la tal notizia la mette in testa, e l’altra no. Compri «Il Manifesto» ed è la stessa cosa. Facebook invece dà all’utente una falsa impressione di neutralità. Alla fine, il rischio più sottile che si profila è ancora un altro. Il comportamento del network tende (soprattutto per l’incidenza del pulsante like) a incapsulare l’utente in una «bolla cognitiva», dentro la quale alla fine quello che gli viene offerto è semplicemente quello che l’algoritmo ha verificato che gli piace.

La definizione di «bolla cognitiva» è di uno studioso americano, Eli Pariser, che nel suo libro The Filter Bubble (Penguin books, 2016) dimostra come essa tenda a rinchiudere l’utente in un mondo egocentrico da cui è lasciata fuori ogni alternativa: di consumo, di idee, di scelte politiche o di altro non importa. Ognuno è ovviamente libero di vivere come vuole, se vuole isolarsi in cima a una montagna è pur sempre affar suo: ma questa situazione non deve essergli surrettiziamente procacciata da un algoritmo. Sennò il giornale che quell’utente leggerà in Internet sarà un daily me. Il pericolo è stato denunciato in occasione della votazione sulla Brexit.

Un’inchiesta dell’Università di Oxford condotta su 50mila persone in 26 Paesi ha dimostrato che già oggi il 12% degli utenti dipende dai social anche per le notizie, percentuale che sale al 28% per la fascia di età tra i 18 e i 24 anni. Che fare, allora? In generale si ritiene che la soluzione non possa essere trovata agendo solo sugli utenti, cioè invitandoli a non bere la prima acqua che butta la fontana, ma a confrontare i dati che gli si offrono, imparando cioè… a guidare la macchina. Gli Stati potrebbero imporre ai network di lasciare spazio a contenuti «formativi», per esempio l’informazione politica, la scuola, la cultura. Gli interessi in gioco sono ovviamente fortissimi. Vincerà la ragione? Speriamo.