La crescente diffusione dei tatuaggi nella nostra società, soprattutto fra i giovani, solleva spesso discussioni e giudizi di ordine essenzialmente estetico in rapporto al buon gusto. Tuttavia, un tatuaggio non è un vestito o un foulard che si possano valutare, indossare e poi, magari, abbandonare, bensì una vera e propria modificazione corporea piuttosto definitiva. Una modificazione che, a differenza di altre, come i vari tipi di protesi, non si rende però necessaria per ragioni di recupero fisiologico ma viene effettuata solo per ragioni, diciamo così, decorative.
Questa moda piuttosto recente, anche se le sue radici sono antiche, si presenta con i caratteri diffusivi tipici di quello che i sociologi anglosassoni chiamano un craze, cioé una sorta di impazzimento collettivo che, in questo caso, investe un organo, la pelle, che si pensa possa essere ri-modellata a piacimento. Ciò sembra reso possibile dal fatto che la pelle, anche se custodisce preziose funzioni vitali, non gode della stessa reputazione, per così dire, degli altri organi di senso.
Nessuno, infatti, oserebbe pensare alla modificazione, per ragioni che non siano di ordine sanitario, degli organi che presiedono alla vista o all’udito, all’olfatto o al gusto. La pelle ricopre tutto il nostro organismo e la sua attività ci appare talmente ovvia, silenziosa e soprattutto abbondante, da spingerci a pensare che sia meno strategica rispetto agli altri organi di senso.
In realtà la pelle, nell’essere umano ma anche in tutte le specie viventi che ne siano dotate, è un organo fondamentale poiché, fra l’altro, contrassegna sensibilmente il confine fra noi e il mondo esterno. Lo stesso sviluppo delle nostre relazioni sociali ha inizio nei primi anni di vita, attraverso un ampio impiego della pelle come fonte di informazione e di contatto concreto con i genitori. Il buon funzionamento della pelle è un prerequisito non solo per altre funzioni sensoriali ma anche, e forse soprattutto, per ogni nostra azione o comportamento in rapporto all’ambiente.
Le stesse relazioni sociali sono fortemente caratterizzate dal tatto, ossia da una delle funzioni basilari della pelle. La cosa non riguarda solo le popolazioni primitive le quali, spesso dotate di scarso abbigliamento, non potevano che assegnare alla pelle numerose funzioni di comunicazione o simboliche, fra cui il tatuaggio, ma anche la società attuale. Stringersi la mano, baciarsi, anche col naso come fanno gli eschimesi, accarezzare, sono alcune delle abitudini che designano aspetti rilevanti di una relazione, come la confidenza, l’intimità, l’affetto. Per queste ragioni, di norma i tatuaggi vengono realizzati in parti del corpo che non vengono toccate dalla persona con cui intratteniamo una relazione ordinaria, anche se, con motivazioni chiaramente trasgressive e provocatorie, non mancano esempi di tatuaggi collocati persino sulle mani.
Una persona media possiede una superficie di pelle di circa due metri quadrati e, su questa, sono collocati circa due milioni e mezzo di recettori di contatto, temperatura e pressione che operano in permanenza. A differenza della vista, che possiamo volontariamente inibire chiudendo gli occhi; dell’udito, che possiamo escludere provvisoriamente coprendoci le orecchie con le mani, e persino dell’olfatto, che possiamo bloccare «turandoci il naso», il tatto, così come il meno strategico organo del gusto, non può essere inibito su base volontaria.
Tutto questo rende facilmente comprensibile come la pelle non sia un banale rivestimento dell’organismo ma un delicato e complesso sistema biologico che non andrebbe trattato come una semplice parete da riempire di graffiti. Nella letteratura dermatologica cominciano ad essere denunciati casi di patologia della pelle, a causa dei tatuaggi, per nulla trascurabili, riferibili agli inchiostri impiegati, che di norma possono contenere rame, piombo, mercurio e litio a seconda del colore progettato, e alla stessa reazione che gli strati della pelle oppongono alla violenza meccanica. Allergie, infezioni e altre severe patologie degenerative sono fra le più frequenti conseguenze.
Rimane dunque il quesito di fondo: perché, nonostante il fatto che la rischiosità del tatuaggio sia sempre più dichiarata, il fenomeno non tende a smorzarsi ma, al contrario, ad accrescersi? Alla base c’è sicuramente, per quanto riguarda i giovani, il classico effetto di imitazione-omologazione del peer group ben noto ai sociologi, ossia la pressione , un vero e proprio imperativo, avvertita da un ragazzo o una ragazza, proveniente dal gruppo di cui fanno parte ed al quale solo pochi riescono ad opporsi. Poi, per i più adulti, c’è l’ambizione a distinguersi presentandosi in pubblico con qualcosa che gli altri non hanno. Si tratta di un paradosso per il quale si aderisce ad una moda – che, per definizione, è tutto fuorché originalità – ma poi la si «personalizza», poiché i disegni dei tatuaggi sono per loro natura irripetibili anche se, aumentando la massa di coloro che se ne corredano, i disegni tendono inesorabilmente ad omogeneizzarsi, fra fiori e volti, pretenziose volute barocche e magari nomi o date. Altrettanto vale per i cosiddetti text tattoo, vere e proprie citazioni letterarie, con tanto di virgolette, filosofiche o politiche messe in mostra sulla pelle di chi, evidentemente, non ritiene possibile cambiare opinione in futuro.
Già, quella del futuro è forse la trappola più ironica dei tatuaggi: essi, infatti, essendo stati concepiti e realizzati oggi sulla base del gusto e degli stili di oggi, domani denunceranno chiaramente l’appartenenza del portatore ad una generazione ormai superata, inducendo atteggiamenti di compassionevole ilarità da parte di chi, peraltro, si sarà già adeguato alle mode successive. Dopo l’ondata attuale può darsi che, per i tatuaggi, inizi la curva discendente e, allora, potrebbero avere successo non coloro che li realizzano bensì coloro che li eliminano. E la pelle dovrà così sopportare ulteriori violenze alle quali, ancora una volta, si opporrà con tutte le sue forze.