Centro della casa, focolare domestico, il foyer inteso nel suo significato francese indica il luogo dove ci si unisce, si vive, ma anche, in senso figurato, una sorgente da dove nascere e ripartire. Ed è questa l’immagine che mi porto appresso dopo l’incontro con Gian Paolo Conelli e Patrizia Quirici, rispettivamente direttore e vice direttrice della Fondazione Amilcare. Una fondazione no profit, che prende il nome dal pediatra Amilcare Tonella scomparso nel 2003, e che si pone come obiettivo la promozione e la tutela dei diritti fondamentali degli adolescenti e la loro protezione. Soprattutto di quei ragazzi che hanno bisogno di un sostegno particolare perché non riescono più a stare dentro le difficili situazioni in cui si trovano, o semplicemente dentro sé stessi. Che hanno bisogno quindi di ritrovarsi per ripartire, rinascere, anche nei foyer. Due delle sei strutture della Fondazione (il Calprino a Massagno e il Verbanella a Locarno) compiono nel 2021 quarant’anni di vita, siamo partiti da qui per raccontare storia ed evoluzione di una realtà sempre più presente sul territorio.
«Mi emoziona vedere dove siamo arrivati oggi. Quando sono nati i foyer erano delle famiglie, persone che si erano messe a disposizione per accogliere i bambini in difficoltà», racconta Patrizia Quirici, che lavora in Fondazione dal 2003, quando ha iniziato come educatrice nel Foyer Vignola. Si trattava di trovare allora delle soluzioni alternative al collocamento dei minorenni, che per diverse ragioni non potevano più stare con la propria famiglia; la realizzazione di questa soluzione venne affidata all’epoca all’Associazione ticinese per l’assistenza ai disadattati sociali (nome che già di suo racconta la storia e i passi che si sono fatti nel sensibilizzare la società a queste problematiche) che nel 1976 creò a Pregassona il Foyer La Pigna e nel 1980 il Rondinella a Viglio. Due famiglie, che coadiuvate da un’educatrice e un aiuto domestico accoglievano in casa propria rispettivamente 8 bambini in età pre e scolastica. «Da qui ai 60 adolescenti che ospitiamo ogni anno, le cose sono cambiate parecchio, soprattutto dal punto di vista gestionale, è stato un lavoro enorme!»
Gian Paolo Conelli, cosa è cambiato nel tempo? «Innanzitutto è subentrata una professionalizzazione del lavoro a pari passo con una coscienza sociale delle sofferenze e delle difficoltà delle famiglie e a una complessità delle prese a carico. Prima c’era poco spazio per quel tipo di sensibilità, c’erano per esempio le realtà di paese dove le cose si risolvevano in modo pragmatico, e i sostegni arrivavano in altro modo. Nel 1975 è entrata in vigore la prima applicazione della Legge delle famiglie, si è iniziato a riconoscere questo bisogno e pian piano a individuare chi poteva svolgere il lavoro. La necessità di professionalizzazione nel nostro campo oggi è lampante, ma ieri non lo era».
All’inizio degli anni 80 il bisogno di strutture in grado di accogliere adolescenti è sempre più urgente, per questo motivo nel 1981 nascono Calprino e Verbanella. Le strutture aumentano e nasce l’esigenza di una ristrutturazione amministrativa e organizzativa: nel 1982 i foyer vengono dapprima rilevati dalla Fondazione Svizzera Pro Juventute e poi la signora Franca Bernasconi-Armati come prima direttrice darà avvio alla creazione della nuova Fondazione Foyers Pro Juventute Ticino, ottenendo l’immediata adesione e collaborazione di Amilcare Tonella. Sarà solo nel 2003 che la Fondazione prenderà il suo nome, e che a poco a poco si trasformerà in quello che è oggi: 3 foyer, gli accompagnamenti educativi in appartamento ADOC, il centro diurno Spazio ADO, e da ultimi il servizio AdoMani che avvicina i ragazzi al mondo lavorativo e le Consulenze familiari. Ma andiamo con ordine e torniamo ai primi foyer.
Patrizia Quirici ci racconta che «inizialmente al loro interno ogni ragazzo faceva vita comunitaria e parallelamente portava avanti il proprio progetto di vita individualizzato». E Conelli: « Si faceva idealmente una vita alternativa alla vita famigliare. Era un altro tipo di lavoro rispetto a oggi, con ragazzi che dovevano avere un’attività durante il giorno: lavorare, andare a scuola, per essere accolti. C’erano regole molto più definite, severe».
Negli anni ci si è accorti che qualcosa non funzionava: i ragazzi venivano dimessi perché per esempio da un momento all’altro rimanevano senza attività, e le regole rigide, sempre meno rispettate, stavano portando i foyer a svuotarsi. L’attuale direttore ci spiega che «le regole che esistevano sembravano dire: o ci stai, o fuori di casa. Ma questo approccio educativo non era più al passo coi ragazzi che portavano ora – siamo nella prima decade 2000 – un nuovo tipo di disagio e sofferenza. Non rientravano in certi parametri, arrivavano da noi anche perché famiglia, scuola, non ce la facevano più a gestirli». Erano gli anni in cui Direttore di Amilcare era Raffaele Mattei, subentrato nel 1999 alla signora Bernasconi e in azione fino al 2019 portando avanti questo cambiamento fondamentale di paradigma educativo.
Quindi è cambiato l’approccio ai limiti? Patrizia Quirici: «Ci siamo adattati ai nuovi bisogni emergenti, diventando più flessibili e con altre priorità. Esserci, a fianco dei ragazzi, indipendentemente da quel che capita. Mantenere una continuità relazionale, anche se il ragazzo delinque, trasgredisce alle regole, sta male. Dargli quello che gli manca, delle figure adulte che ci sono sempre anche quando le cose non vanno». I due responsabili ci tengono a sottolineare anche come la maggior parte delle volte la sofferenza che il ragazzo esprime con gesti forti, spesso etichettati facilmente dalla società, sia dovuta a situazioni personali e sociali molto difficili. Gian Paolo Conelli: «I ragazzi arrivano da noi con un bagaglio di sofferenze che va riconosciuto e ascoltato. Non sono spesso in grado di rispettare le regole, non hanno più fiducia nel mondo degli adulti, non si aspettano nessuna risposta, solo opposizione e sfiducia. Noi abbiamo voluto sviluppare una struttura d’accoglienza non giudicante, anche nei confronti dei genitori, che sono anzi diventati una risorsa importante».
«Un altro grande cambiamento è stato il mettere il ragazzo al centro: lui è il protagonista del percorso e dev’essere interpellato e ascoltato in prima persona sulle cose che lo riguardano» continua Quirici, toccando così un punto fondamentale per il direttore Conelli: «Ancora oggi c’è l’aspettativa che il centro educativo accolga i ragazzi che “non funzionano” e li rimetta sulla retta via. Ora li si accoglie e si crea insieme un programma operativo, passando in rassegna i diversi ambiti della vita e ponendosi degli obiettivi poco a poco, confrontandosi».
Ma come aiutare dei ragazzi che spesso non vogliono essere aiutati? «Se l’adulto fa fatica ad ammettere di avere bisogno d’aiuto, immaginiamoci l’adolescente! La sua natura è dimostrare la forza nel gruppo di pari, essere performante. Questi ragazzi hanno bisogno di anni prima di riuscire ad ammettere di aver bisogno di aiuto. E tutto questo periodo di accompagnamento, prima di affrontare un lavoro con uno specialista, è fatto di adolescenti che stanno male, scappano, si comportano male, e l’unica cosa che li protegge è la relazione».
Una relazione che cresce negli anni, dentro e fuori i foyer della Fondazione, che porterà molti ragazzi a riprendere coscienza di sé, intraprendere un percorso professionale, ricostruendo un nuovo rapporto con la famiglia, rinascendo da queste casalinghe sorgenti.