I benefici della solitudine

Con gli onnipresenti smartphone è sempre più difficile restare soli con i propri pensieri.
/ 26.06.2017
di Stefania Prandi

Scegliere di stare soli con i propri pensieri, per qualche minuto oppure per alcune ore, in silenzio, attenti a non farsi distrarre dai dispositivi elettronici, può essere terapeutico. I periodi di isolamento volontario sono salutari perché aiutano a confrontarci con noi stessi e a liberarci dalla frenesia e dallo stress. Un’idea condivisa, in passato, da scrittori, artisti, filosofi. Il giornalista Tiziano Terzani, negli anni Ottanta, si rinchiuse per un mese in un bungalow in Giappone, come raccontò nel suo diario di viaggio Un indovino mi disse. A fargli compagnia soltanto il suo cane Baoli. Trascorreva i giorni leggendo, osservando la natura, guardando le farfalle, godendosi il silenzio, sentendosi «finalmente libero dalle ansie incessanti della vita, con il tempo di avere tempo».

Secondo un articolo della rivista statunitense «Atlantic», sono sempre di più le ricerche a sostegno dei benefici di una solitudine scelta e consapevole. Jack Fong, sociologo della California State Polytechnic University, sostiene che quando le persone sperimentano la solitudine, non soltanto sono costrette a confrontarsi con quello che sono, ma imparano anche a liberarsi dalla «tossicità» del contesto sociale che le circonda, diventando più consapevoli delle influenze che arrivano dall’esterno. Il monaco trappista e scrittore Thomas Merton ha trascorso lunghi periodi in ritiro spirituale e sosteneva che possiamo vedere le cose in prospettiva solo quando smettiamo di restarci attaccati.

Per Matthew Bowker, ricercatore di Teoria politica-psicoanalitica e professore al Medaille College, negli Stati Uniti, autore di diversi testi sull’argomento – ad esempio Ideologia dell’esperienza: trauma, fallimento, privazione e abbandono del sé (Ideologies of Experience: Trauma, Failure, Deprivation, and the Abandonment of the Self, goo.gl/wQiNri) – ci vuole un po’ di impegno per rendere la solitudine piacevole, ma è importante farcela, dato che la relazione con se stessi è la più importante di tutta la vita. Impresa che non riesce proprio a tutti: secondo uno studio dell’Università della Virginia, per alcune persone è meglio ricevere una scossa elettrica che stare da sole senza alcuna forma di intrattenimento, in compagnia dei propri pensieri. «I mie studenti non si isolano dal mondo nemmeno quando vanno in bagno, visto che si portano dietro il cellulare», dice Bowker ad «Azione». Nel suo libro Un posto pericoloso dove stare: identità, conflitto e trauma nell’educazione universitaria (A Dangerous Place to Be: Identity, Conflict, and Trauma in Higher Education), in uscita negli Stati Uniti nei prossimi mesi, mette in relazione il disagio giovanile con la necessità di essere sempre in gruppo e avere l’appoggio degli altri, perdendo quella che lo psicanalista Donald Winnicott chiamava «la capacità di stare soli». Non riusciamo a stare due minuti senza volere essere stimolati o intrattenuti in qualche modo, e così anche semplicemente fissare il muro e chiudersi in se stessi è diventato meno frequente che scrivere messaggi, parlare o giocare ai videogiochi. C’è sempre un’altra dimensione, virtuale, sia che si tratti di un avatar in un videogame oppure di una foto su Instagram.

Da un punto di vista più filosofico, questo implica che non si riesce più a «essere» quando si è soli. Ci si sente vivi soltanto quando si è in relazione agli altri o si sta facendo qualcosa che distrae da se stessi. La diffusione degli smartphone ha reso questa condizione diffusa e generalizzata. Come notava il filosofo Michel de Montaigne cinquecento anni fa, non è mai facile riuscire a raggiungere uno stato di reale solitudine, perché «ci si porta sempre dietro le proprie catene»: non basta allontanarsi dagli altri, ma si deve superare anche l’istinto gregario, la tendenza a seguire la massa e ad adattare il proprio pensiero all’opinione prevalente. In particolare sono i più giovani, a causa della connessione online continua, a identificarsi con i gruppi a cui appartengono, che appunto non sono per forza «fisici»: sono sui social media, sui siti di scommesse, di videogame, in televisione. Un fenomeno che viene descritto anche nella serie televisiva americana Tredici (tratta dal romanzo omonimo di Jay Asher e trasmessa sulla piattaforma di streaming on demand Netflix), che indaga le ragioni del bullismo e il suicidio di una ragazza alle scuole superiori. 

Come spiega Bowker, «quando l’identità di una persona coincide con le credenze, le fantasie e le opinioni di un gruppo, ogni minaccia percepita o reale al gruppo, come un insulto oppure una discussione, diventa un pericolo per tutti i suoi membri. Questo senso pervasivo di pericolo è ciò che genera il conflitto nelle scuole superiori e nelle università: i giovani si sentono a rischio quando i discorsi e i comportamenti degli altri non corrispondono ai loro valori e alle loro credenze, che sono quelle del gruppo. Nel nostro libro non cerchiamo di giudicare queste dinamiche, soltanto di capirle. Una delle conclusioni è che se ci fosse un maggior numero di individui capace di solitudine interiore, la percentuale e l’intensità dei conflitti si ridurrebbero». La famiglia e la scuola hanno una grande responsabilità rispetto al problema. «Se i bambini vivono in un ambiente dove si sentono bene e al sicuro, imparano a sviluppare una maggiore indipendenza e quindi a stare da soli. C’è differenza tra un bimbo che viene trattato come una persona in sé e uno che invece viene considerato prima di tutto un membro della famiglia, cioè di un gruppo, con la funzione di servire al gruppo. Il problema della scuola è simile: l’indipendenza, la creatività, l’autonomia non vengono coltivate, anzi, sono soppresse per favorire lo sviluppo di studenti che imparano a memorizzare informazioni, a svolgere compiti, ma non sanno davvero come pensare, nel senso più profondo del termine. Pensare è qualcosa di intimamente legato alla solitudine, perché significa stare con i propri pensieri, non con quelli degli altri».