Bibliografia
Francesco Scomazzon, La linea sottile. Il fascismo, la Svizzera e la frontiera (1925-1945), presentazione di Massimo Castoldi, prefazione di Fabrizio Panzera, Donzelli editore, Roma, 2022.


Gli accolti e i respinti sulla linea di confine

Pubblicazioni – Lo storico Francesco Scomazzon nel suo ultimo saggio indaga il ruolo della frontiera e le relazioni italo-svizzere nel periodo che va dal 1925 al 1945
/ 23.01.2023
di Orazio Martinetti

L’attraversamento di un confine o di una frontiera è esperienza ordinaria: la associamo a sbarre, garitte, controlli, guardie occhiute. Ma se si va a scavare sotto la superficie dell’esperienza quotidiana si scopre una realtà stratificata, un cumulo di sedimenti ereditati dalla storia. Non per nulla, in questi ultimi anni, è tornata d’attualità la geopolitica, disciplina che intende proprio mettere in luce l’intreccio tra il dato spaziale e le strategie di volta in volta adottate dalle forze in contrasto: espansione o ripiegamento, guerre lampo o precipitose ritirate, campagne militari per accaparrarsi nuove risorse, oppure chiusure nel segno dell’autarchia. Che cos’è, allora un confine, queste cicatrici che attraversano i secoli? Per rispondere, lo storico Francesco Scomazzon nella sua ultima ricerca invita ad interrogare le relazioni italo-svizzere nel periodo che va dal 1925 al 1945: vent’anni, un periodo relativamente breve, ma densissimo di avvenimenti, di attori, di conflitti e drammi umani.

A partire dal delitto Matteotti (1924), la frontiera diventa vieppiù una membrana destinata ad assorbire ogni provvedimento liberticida varato dal regime fascista nei confronti dell’opposizione. In principio fuggono gruppi di comunisti, socialisti e repubblicani, seguiti da un’umanità eterogenea, composta anche da disertori, renitenti alla leva, migranti in cerca di lavoro, delinquenti ricercati. Nella maggior parte dei casi, la meta finale di questi flussi, almeno di quelli più politicizzati, non è la Confederazione, ma Parigi, dove opera la Concentrazione antifascista. Ma con il passar degli anni i movimenti si intensificano e si diramano, come conseguenza di leggi e di «ordini di servizio» emanati da entrambi gli Stati. Sia il fascismo sia le autorità elvetiche mirano a rafforzare la linea di confine per impedire, o quanto meno, scoraggiare i movimenti attraverso i valichi. La Svizzera repubblicana teme di diventare una piattaforma di cospiratori antifascisti; il Duce mobilita accanto ai corpi regolari temuti drappelli di guardie confinarie formate da camicie nere. Durante la guerra civile spagnola (1936-1939) aumentano i passaggi di volontari diretti al fronte; nel 1938, l’«anno infame» delle leggi razziali, prende il via in Italia una sistematica persecuzione delle comunità ebraiche, destinata a durare fino al termine delle ostilità in Europa. Il periodo bellico è quello più tragico e vessatorio. Se prima la frontiera si apriva e chiudeva a mantice, lasciando varchi sfruttati da contrabbandieri e passatori, dopo, durante la guerra, queste possibilità diminuiscono fino a cessare quasi del tutto. L’inasprimento della vigilanza porta a calafatare i confini, a chiudere ogni fessura, e a scarnificare anche il diritto d’asilo fino a quel momento difeso dalla Svizzera umanitaria pur tra mille eccezioni e restrizioni. I rivolgimenti del 1943 (sbarco degli alleati in Sicilia, arresto di Mussolini, governo Badoglio nelle terre meridionali liberate, proclamazione al Nord della Repubblica sociale al servizio dei tedeschi) innescano nuove ondate di espatri, specie all’indomani dell’8 settembre, con lo sfaldamento dell’esercito italiano. Entrano i militi regolarmente inquadrati, ma per i civili l’accoglienza rimane vincolata a condizioni che per moltissimi ebrei comporteranno il respingimento e la deportazione nei campi di sterminio nazisti.

Scomazzon, in questo suo saggio frutto di meticolose ricerche in archivi svizzeri e italiani, osserva la frontiera nel suo essere bifronte: la definisce una «linea sottile», quella che corre «tra accoglienza e respingimento, labile confine tra vita e morte, il filo tenace che porta migliaia di profughi, in quell’ultimo frangente di guerra, a guardare la Confederazione come unico possibile appiglio di salvezza». Come non riudire, in queste parole, l’eco dei sommersi e dei salvati di Primo Levi, qui reincarnati nelle figure degli accolti e dei respinti, con sullo sfondo la parabola del ventennio fascista e le reazioni della Confederazione, alle prese con una neutralità problematica e una politica d’asilo tutt’altro che coerente. Inevitabile, per l’autore, imbattersi in Giuseppe Motta, il titolare del Dipartimento politico (oggi affari esteri) che non cela la sua ammirazione per il Duce, il quale ricambia le cortesie con apprezzamenti da lingua biforcuta. Sia Roma che Berna cercano in ogni modo di moderare i toni e di spegnere le proteste dei giornali, a partire dalla socialista «Libera Stampa». Tuttavia il confine rimane una fascia brulicante di vite precarie, in cui convergono interessi meschini e atti di pietà, espulsioni disumane e iniziative di solidarietà promosse dalla popolazione locale e dal clero. Tra le maglie scivolano uomini, donne, anziani, bambini, come pure borse di denaro destinate alle associazioni impegnate a soccorrere i fuggiaschi. Ma non tutti ce la fanno, per molti la «frontiera della speranza» svanisce alla vista di guardie inflessibili in un comprensorio che si estende dalla val d’Aosta alla Valtellina.

Dopo i lavori di Elisa Signori, Carlo Musso, Renata Broggini e, più recentemente, di Adriano Bazzocco, questa ricerca di Francesco Scomazzon aggiunge un nuovo capitolo allo studio di un’epoca altamente infausta, ma che è bene, per la nostra coscienza civica, non lasciar cadere nell’oblio. Perché si sa che il passato prima o poi… ripassa, presentandoci il conto.